I Tears For Fears furono per i miei ascolti adolescenziali una folgorazione sulla via di Damasco, come forse lo sono stati solo i Queen con il monumentale Innuendo. Correva l'anno 1992 quando lanciavano la sottovalutata Laid So Low, di fatto un pezzo solista di Roland Orzabal, a traino della loro prima raccolta, una sequenza formidabile di 12 brani da togliere il fiato a chi, come me, non ne conosceva nemmeno l'esistenza.
Seguirono due buoni album sempre a nome Tears For Fears, ma praticamente opera del solo Orzabal, e poi anni di silenzio. Curt Smith, il socio, rifece capolino ad inizio anni 2000 quando ripresero i lavori della ditta al completo per produrre il debole Everybody Loves A Happy Ending. Più volte mi sono chiesto cosa non fosse riuscito...troppo immediato, troppo pop, troppo scontato, troppo Beatlesiano, troppo tutto, eppure con idee a iosa, inevitabilmente sprecate. E Curt Smith, col suo cantato sdolcinato a ricoprire come zucchero a velo composizioni già di per sé iper-prodotte.
Temevo il danno anche stavolta. E invece comincio con l’affermare che proprio il socio minore ha dato la zampata vincente portando in dote a questo, mettiamolo subito in chiaro, bellissimo album, il primo singolo della loro storia senza l'intervento del genio di Orzabal. Break The Man è decisamente un singolo riuscito, degno della loro storia e a servizio di una delle loro più incisive tematiche passate. La gestazione del disco non è stata facile, complici drammi familiari e management inadeguato, ma come per molti eventi della vita, quando ci si rialza dalle cadute si riesce a dare il meglio, o quantomeno quel qualcosa in più, in tal caso un lavoro maturo, magnificamente suonato e senza goffe imitazioni del passato.
C'è anche un momento emozionante e di pura nostalgia come la "quasi suite" Rivers Of Mercy, dove i Tears For Fears ci ricordano di essere ancora in grado di concepire canzoni che trascendono la forma pop col sapiente uso di contaminazioni da altri generi musicali. Pezzo citato da più recensori come il migliore del disco e fra i migliori della loro discografia, ma che non convince del tutto un “Orzabaliano” come il sottoscritto. Considero al contrario Master Plan, la traccia, udite udite, meno ascoltata su Spotify, l'acme dell'album, in quanto espressione compiuta dell'operazione partita da Sowing The Seeds Of Love, di posizionarsi sullo stesso complicato piano di Lennon\McCartney. Peccato per la successiva End Of Night che finisce per perdersi nei consueti coretti di Smith (ok, avrete capito che non tifo per lui) impedendole di svettare fra le migliori cose uscite dalla penna di Orzabal.
A livello strumentale salta subito alle orecchie l'abbandono della chitarra elettrica a favore di acustica ed elettronica, diversamente da quanto accadeva negli anni 90, quando in certi brani si sfiorava l'hard rock. Casi emblematici sono i primi due singoli estratti. No Small Thing è un isolato episodio folk che si evolve da un cantato su chitarra acustica alla Johnny Cash verso le consuete aperture melodiche, di cui i nostri non sono mai stati avari. The Tipping Point è giocata su una base elettronica che pare cucita a trama e ordito su un testo che è la principale chiave di lettura del disco. Il punto di non ritorno, quello che ci obbliga a scegliere altre strade, è ciò che ha consentito ai due artisti di sbloccarsi e riprendere il lavoro che li ha resi celebri nel mondo.
Se le loro canzoni sono tuttora oggetto di culto e reinterpretate da varie e inaspettate star della musica, è perché siamo al cospetto di veri superstiti della grande musica anni 80. Superstiti per nostra fortuna anche nel talento, che ci sembra ancora intatto e cristallino.
Carico i commenti... con calma