Forse la copertina che preferisco fra i dischi della mia collezione: una semplice immagine suburbana virata con gli infrarossi, con una bella scelta cromatica che la rende del tutto peculiare, soprattutto distinguibilissima fra tutti gli altri album...

A cavallo fra i sessanta e i settanta c'erano anche loro, Ten Years After (bel nome!), inglesi e dediti al rock-blues. Non a livello di Purple e Zeppelin come popolarità ed effettivo merito, ma insomma fra i più quotati ai tempi nel genere. Soprattutto, come altri (Cocker, Crosby Stills & Nash, Santana) "miracolati" dall'apparizione a Woodstock: il biondino svelto di mano sulla Gibson rossa e ringhiante rock'n'roll con tantissime smorfie è uno dei momenti topici di quel decisivo evento mediatico per il rock. Il "biondino" ha nome Alvin Lee, chitarrista, cantante, compositore e capogruppo. Buon "manico" ma non un caposcuola, con un fraseggio molto per stereotipi ("licks", come si dice dalle sue parti)... è perché gli piaceva suonare veloce, a scapito della fantasia. La sua voce poi non è da considerarsi fra le più carismatiche, ma in conclusione nella storia del rock Alvin la sua pagina l'ha scritta senz'altro e con merito.

Il suo gruppo era completato dal fratello Rick alla batteria, dal bassista Leo Lyons e dal tastierista Chick Churchill, tutti buoni esecutori ma in definitiva onesti comprimari. "Watt" esce nel 1971 ed è già il quinto o sesto della formazione che, dopo i primi lavori in cui era la componente blues a prevalere, aveva annusato l'aria prendendo a sagomare maggiormente la propria musica rendendola più commerciale e anche più pesante (senza però approdare all'hard rock non avendo voce adeguata Alvin né adeguata "pacca" suo fratello). Apre "I'm Coming On" e "il chitarrista più veloce del West" si mette subito in vista, dopo due veloci strofe parte un assolone col distorsore, lungo e psichedelico, di quelli che oggi qualsiasi produttore taglierebbe di novantasei battute, indubbiamente efficace proprio per il suo aroma di libertà improvvisativa. A fatica il pezzo riacquista sembianze strutturali per una terza strofa cantata ed un epilogo.

"My Baby Left Me" che segue è assai più ortodossa, rock blues in midtempo condotto da un ossessivo giro all'unisono chitarra-basso, come da manuale in quegli anni. Sempre molto ortodossa è anche la ballata "Think About The Times" giocata sul LA minore che poi risolve in DO maggiore nel ritornello. Musica assai rilassata, specie rispetto ai concerti, un modo di concepire la sala di registrazione che avevano anche i Cream, per esempio... ciò non avviene per la seguente "I Say Yeah!" che è molto blues e molto viva e sanguigna. "The Band With No Name" è un breve arpeggio strumentale che nell'LP apriva la seconda facciata, fa da introduzione al momento migliore del disco "Gonna Run": dopo una specie di cantato "mantra-blues" strascicato e ipnotico c'è un break molto riuscito e parte una lunga coda swingante a jamsession, fluida e di gran gusto, con la chitarra pulita ed anche il piano che lavorano alla grande su di un competentissimo pedale di ritmica.

"She Lies In The Morning" è l'ultimo pezzo in studio perché l'epilogo è affidato alla cover di un classico di Chuck Berry eseguita dal vivo all'Isola di Wight. L'esecuzione di "Sweet Little Sixteen", sporca e selvaggia, è esemplificativa di quanto scrivevo prima: un gruppo a due facce, spesso riflessivo in studio, ruspante e grintoso nei concerti. Una ben strana scelta questo finale, assai fuori luogo data l'atmosfera un poco tardo-psichedelica del disco e della sua fascinosa copertina.

 

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