Mi piace tantissimo Moongazer, perché ho il sentito piacere di godermelo nelle partiture estremamente calibrate, calde, fuoriuscenti in modo chiaro e distinto, sia per parte ritmica che dagli assoli, quanto negli anfratti bui delle accattivanti 'compitazioni' ritmiche.
Cosicché, io credo, la musica di Tenebra somigli a un genere heavy, sebbene sia trattato in una maniera che tende all'unicità, roba di cui i Black Sabbath sono stati maestri nel creare, rigenerandosi finanche nel jazzato e nel follemente bello folk lunare (ho una visione: i BS, druidi del sortilegio, aleggiano nel bosco notturno a caccia di belle streghe, durante la luna piena, daje! per organizzare una messa nera). Tenebra, invece, rimane quel tantino (che è poco in verità) aderente a quegli stilemi classici dell'hard rock occulto-doom, e tuttavia cospargono la loro musica di una strana polvere che sa di novità, perché splende autonoma nel rendimento collettivo, di cui spero vivamente si accentuerà, e di molto, nel loro prossimo effort futuro.
Sarebbe un piacere ulteriore poter leggere i loro testi e trovo altresì fantastica, letteralmente, l'esecuzione di Space Child che, nell'aprire il package - e ci penso sì, al timbro tenebroso di Silvia - della track, questa esali tutto un fluido floreale stordente misto di piacere e sofferenza: qui finalmente il blues viene riproposto tra le viscose nere pareti del sound ossidiano, addizionato da un sax meraviglioso + whawha, il quale riverbera comunque l'eco del micidiale Funhouse degli Stooges, pur continuando a tenersi a una importante distanza da esso, come a significare che la prossima tappa segnerà da ultimo lo stacco da tutto e da tutti, per vestire il manto sonico e personalissimo (perbacco, ma già lo è!) di Tenebra (mi alletta citarli al singolare, come fossero una sorta di ologramma diabolico), entro cui la singer, Silvia, non rassomigli più, nemmeno lontanissimamente, a Doro Pesch, appunto librandosi in un cielo dark e distante (il pezzo n.8 hoc dicit). E stazioniamo ancora nel mood rock'n'roll, perlomeno quello delle zone malfamate del genere, quello che fa nascere in punta di coltello l'horror, il brivido improvviso che corre lungo la schiena, cioè, quel presagio tristo. Circ'appunto vaghiamo ora nelle periferie di Dunwich.
Apprendo benignamente dalle note dell'albo che nella nona traccia fa sorprendente capolino l'apporto di Gary Lee Conner, il grande chitarrista degli Screaming Trees, e se già la notizia basta a far palpitare il cuore nello scorrere del brano, dove persino i rimbalzi delle bacchette della batteria hanno una restituzione magica della goduria uditiva, il timbro si fa più concitato e strano, veloce e semovente, come avere tra le mani una cam mentre si corre, e l'immagine ripresa risulta terremotata, impazzita, completamente in balìa dell'alternarsi delle gambe. Ed è in questo contesto che è innestato lo sproloquio liquido, incandescente, dopato e ascendente della chitarra elettrica.
Secondo me è nata una grande stella. A Bologna.
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