Anche di notte Napoli è solare. Da Santa Maria a Marechiaro sembra proprio che la città sia stesa su un materasso ad acqua, coccolata dallo scintillio del golfo e dai riverberi luminosi della luna. Chissà, invece, più in là, nei vicoli di questa città, cosa succede. Io ci ritorno quando mi viene una voglia irrefrenabile di esserci e non perdermela. Anche così, nel piccolo spazio antistante una chiesetta, a passarci un’ora o forse tre con la compagnia decaduta di chi ha sempre voglia di manifestare un’aristocrazia popolare che ormai non c’è più.

È integro il ricordo di quando, da piccolo camminando lungo via Pignasecca, ascoltai una musica provenire dall’interno di uno strano negozio/bazar di articoli musicali. Mi fermai e ne chiesi una copia. Fui preso alla lettera. Mi dissero: “Passa tra un’ora”. E dopo un’ora ero lì e avevo una copia in cassetta di questo che, più che un disco, per me rappresenta lo spirito di un passante per caso nel cuore di Partenope. Con il walkman, per di più, a comprare l’acqua in un bugigattolo di Forcella in cui dimenticai di prendere il resto. Fui inseguito. Non ebbi paura. La signora mi ridiede le monete, che gentile.

Era la fine degli anni ottanta. Qualche anno più tardi, a Piazza del Gesù, notai che la pizzeria era la stessa ma non c’era più lo stesso padrone, quello della margherita con la mozzarellona fumante, di quando passavo con nonno a prendere le pellicole per il cinema. Oggi non è neanche lo stesso il cammino che porta al Suor Orsola, è la gente che è diversa, oggi non mi sembra più quella dei ricordi di chi ha trascorso i ’60 universitari lì, oggi ti guarda più sottecchi e alle volte ti fa “O’ frà”. E vuole qualcosa. Però a me va bene così, con 10 euro nelle mutande, un jeans del cazzo, una maglia senza pretese. Quelle le ho solo dentro. In particolare, ho la pretesa di gustarmela tutta, ogni volta che ho voglia.

A modo mio è questa la “Voglia e turnà”. Teresa De Sio, nel 1982, non era ancora quella affiancata da Eno e probabilmente non era ancora quella corrotta (nel senso buono, ci mancherebbe) dalle contaminazioni musicali sperimentali. Il suo canto è quello di un passero impertinente che ti osserva dalla finestra e poi se ne va libero, con la mente a fa’ bbene, in giro a sorvolare un calderone fantastico, considerandolo nel suo insieme e nei suoi dettagli.

Pur notandosi subito una differenza musicale abissale con le proposte odierne, in questa notte settembrina di Marechiaro, sembra proprio emergere dal golfo una furba ingenuità, tipica dell’inizio degli ’80. Teresa andava ad inserirsi in un contesto maschile di rilievo, tra i vari Senese, Daniele, Esposito, occupando una casella ancora vuota: quella di un pop appena iniziato agli incroci con il folk e qualcosa di più. Il cantato napoletano melodico, in una situazione come questa, è fantastico, leggero e profondo insieme, partecipato e spensierato, e si staglia in qualsiasi ambiente lo si ascolti, deciso e inconsueto. Partecipazione che va anche oltre lo schema classico del cantato femminile nazionale, più che altro interpretato fino a quegli anni.

A livello musicale, si potrebbe parlare di una Napoli frizzante e world, di un’artista che dimostra di conoscere già molto bene le influenze locali e quelle internazionali, di un essere, dai, implume ma deciso a compiere il salto nel vuoto per dimenare le ali. Forse è poco tre? Forse no? Non lo so. Tre non vuol dire sufficiente, non vuol dire “ci può stare”. Tre è perché oggi è tutto diverso, a partire dalla sua musica, e dalla sua città. E perché sono le tre, mi dice quello accanto. Che mi ha fottuto. Sono le quattro ma voleva passare un po’ più di tempo qui. M’è scappato pure a me il quattro, alla fine? Questa città mi frega sempre.

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