Prima di addentrarmi in qualsiasi (tentativo di) descrizione è bene che metta in chiaro una cosa: non mi considero un detrattore di Terrence Malick; almeno non della sua opera omnia. Perché se è vero che in passato ha realizzato pellicole indubbiamente affascinanti e di rara profondità (La Sottile Linea Rossa è quello che ricordo meglio e con più piacere), non mi sento di dire lo stesso da quando ha fatto ritorno sulle scene un paio d'anni fa con l'acclamato ma anche tanto discusso The Tree Of Life, che gli ha permesso di vincere la Palma d'oro a Cannes.

È un film-esperienza che mi ha lasciato fin dalla prima visione con sentimenti fortemente ambivalenti: quello di Malick è divenuto anzitutto un cinema d'immagine, squisitamente soggettivo, ambizioso nella tecnica quanto nei contenuti, oserei dire ipertrofico nel tentativo di attirare e coinvolgere lo spettatore nella visione del mondo del regista. Decostruzione e potenza visiva sono il succo di The Tree Of Life; eppure, se il macrouniverso viene esposto così suggestivamente, non posso dire lo stesso del micro, rappresentato da una famigliola americana i cui personaggi-fantocci non hanno risvegliato in me la minima empatia. Sguardi contriti, pulzelle che giravolteggiano per i campi, situazioni ripetitive e improbabili, barbose riflessioni sulla natura e su Dio proposte in insistenti voice-over sussurrati, e via dicendo sino a un finale che ho trovato a dir poco stucchevole. A conti fatti, penso che avrei fatto prima a guardare direttamente un documentario sull'origine del mondo.

Ad ogni modo, con mia grande sorpresa, a meno di due anni dal suddetto film (ed è pochissimo, se consideriamo i suoi ritmi) Malick si è ripresentato con un "nuovo" titolo. Le virgolette sono d'obbligo: l'impressione è che il regista texano si sia un tantino montato la testa dopo il trionfo a Cannes e abbia deciso di accomodarsi pigramente nei propri stereotipi (sempre più grotteschi) ed elucubrazioni (sempre più inconsistenti), allungando così un brodo che già non necessitava di prosiegui. To The Wonder è a tutti gli effetti un'inutilissima appendice di The Tree Of Life: il biglietto da visita è lo stesso, l'impronta del regista è chiaramente immutata, ma il tutto è riproposto in maniera così affettata e demenziale da lasciarmi disgustato e al contempo divertito. Rieccoci quindi alle prese con una sequela impressionante di inquadrature vertiginose e panoramiche mozzafiato, sontuosissimo fondale per un nulla di fatto. La debolezza (che eufemismo!) non sta tanto nell'assenza di una vera e propria trama (persino nel mio film preferito non succede granché), quanto nell'atteggiamento di Malick, un vecchio trombone che stavolta si cimenta in riflessioni su un tema grande forse quanto l'esistenza stessa: l'amore, trattato da un lato con autoindulgenza e dall'altro con pochezza ed evanescenza di idee.

E anche se i fan di Malick avranno di che pascersi in questa immane sbrodolata di voci fuori campo recitanti banalità assortite stile Baci Perugina ("il mio dolce amore", "cos'è questo amore che ci ama?", "cuore mio!") o deliri mistici ("Cristo davanti a me, Cristo dietro di me, Cristo in me, Cristo a destra, Cristo a sinistra, Cristo nel mio cuore"), credo sia impossibile sorvolare sul fatto che, ancora una volta, i personaggi vanno e vengono come simulacri (per non dire rimbambiti) in situazioni inverosimili e tira-molla irritanti. È davvero difficile attribuire un minimo di spessore a Ben Affleck, che qui riesce ad essere insopportabile pur facendo lo spaventapasseri muto; a Rachel McAdams, la bionda diafana attira-bufali che non lascia traccia nei suoi 15-20 minuti di passaggio; a Javier Bardem, che in veste di prete costituisce l'ennesima presenza saltuaria e insipida del dramma, appiccicata lì forse col fine di graziarsi la fetta di spettatori repubblicani; o all'intervento spiazzante di una Romina Mondello (chi??) alle prese con dissertazioni sull'inutilità dei beni materiali; o peggio ancora a Olga Kurylenko, che per tutto il tempo non fa che giravoltare stupidamente in ogni dove e in ogni angolo, persino al supermercato. L'utilizzo di più lingue (inglese, francese, spagnolo, italiano) nel corso del film dà giusto quel tocco di pretenziosità al tutto, come se il messaggio (ma quale, poi?) dovesse essere recepito universalmente.

Merita menzione quella che secondo me è la ciliegina sulla torta di melassa, ovvero una successione di scene di carità che sembrano prese paro paro da uno spot dell'8x1000; difficile esprimerne l'imbarazzo. Mentre per ciò che concerne il resto non c'è molto altro da dire: chiese, campi, alberi, fiori, ramoscelli, cieli, luce, amore, Dio, insomma un girotondo trasognato di meraviglie che sta già mostrando la corda.

To The Wonder affonda così in una marea di cliché e autoparodie (impossibile elencarle una per una), e la sua visione non può proprio essere giustificata dal solo concetto di "cinema d'immagine": per quanto esteticamente gratificante, fare un collage di inquadrature meravigliose (che poi, ad essere sincero, neanche tutte lo sono) messe assieme senza un filo logico non è secondo me un pretesto sufficiente per realizzare un film di quasi due ore. Di sicuro rimarrà una chicca imperdibile per tutti gli intellettualoidi e aspiranti filosofi che ritengono Malick un illuminato o qualcosa di simile, e gli stessi saranno ancora più lieti di sapere che il regista in questione ha già in serbo per loro altri tre o quattro capolavori; ma per quel che riguarda il sottoscritto questo è puro, autentico trash. Se esiste ancora un cinema degno di essere chiamato tale, lo cercherò altrove. Purché sia lontano da qui.

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