Due anni fa, di questo periodo, era in sala L'uomo che uccise Don Chisciotte, l'opera dalla più lunga e travagliata gestazione della storia del cinema, un inno alla perseveranza e all'amore per quest'arte.
Perché questo testamentario film di Gilliam è uno dei più belli e preziosi dell'ultimo decennio?
Perché è un film che mostra come il potere del cinema, dell'immaginazione e delle storie non sia affatto qualcosa di intangibile, bensì qualcosa di profondamente fisico e spirituale insieme, una forza assolutamente senza tempo né limiti, un qualcosa di cui ancora abbiamo bisogno, ora più che mai, e di cui avremo bisogno per sempre. E che ha un'influenza reale e concreta sulla vita di chi ne è preso e innamorato. Qualcosa che alla fine non ti lascia e non ti lascierà mai.
Da subito considerato da molti come l'8 1/2 di Gilliam (il capolavoro felliniano ha sempre avuto una grande influenza sul regista di Brazil - quest'ultimo ne è proprio l'esempio), in realtà è qualcosa di estremamente personale e intimo, e forse proprio in questo il paragone diventa calzante. Un regista e l'opera che vuole ma non riesce a mettere in scena, e reale e fantastico, sogno e immaginazione diventano un tutt'uno. Ma è davvero importante questa convenzionale e schematica - e, talvolta, rassicurante - distinzione?
Per tutto questo e molto di più considero quello di Gilliam un capolavoro inestimabile. Di amore e vitalità.
E per questo non smetterò mai di ringraziarlo per le emozioni di quella visione in sala, fin dall'ironica didascalia iniziale, che faceva riferimento proprio all'infinita e tortuosa lavorazione epica di questo sogno. Vederlo finalmente realizzato fu un'impresa commovente e, già di per sé, una favola a lieto fine.
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