Considerato il capofila della "scuola musicale" americana del “minimalismo”, Terry Riley è un personaggio più vicino all’avanguardia che alla “musica minimale”; se si volesse approfondire la questione forse l’unico vero “minimalista” del “pentagramma” fu La Monte Young. Nel caso di Riley ci si trova spesso di fronte a lavori in contrasto concettuale tra di loro. Dalle prime opere seriali per sassofono ai “Keyboard Studies” degli anni ’60, esso rivela idee, doti e risultanti accostabili a quelle di qualunque altro sperimentatore della sua epoca. A partire dalla composizione “In C” (1969) la critica specializzata comincia a parlare di Riley come di un musicista alla stregua di Young, Glass e Reich, ma nella realtà, al di la di quella pulsante ininterrotta nota di piano, nella sua aleatoria opera per ensemble a libitum si riconoscono con estrema chiarezza i vecchi e all’epoca ormai superati dettami della “scuola cageana”: numero di figure fisse e libere al contempo, durate arbitrarie, innesti e dissolvenze a piacere, etc. Si è parlato di una evoluzione dell’avanguardia, secondo il mio modesto parere “In C” riflette invece una chiara retromarcia nel campo delle avanguardie sonore del ‘900 e solamente con la successiva opera “A Raimbow in Curved Air” (1970) Riley potrebbe rientrate a pieno titolo tra i veri creativi di una nuova fase nel campo della sperimentazione elettro-acustica.
Partendo quindi da quanto già ampiamente sperimentato con la libera improvvisazione su solide battute paritarie e decrescenti, grazie all’artifizio elettromeccanico del feedback tramite nastro magnetico, il tutto già abbondantemente espresso appunto nella suite “A Raimbow in Curved Air”, il mistico e umile Terry Riley comincia a girare tra il 1971 ed il 1972 gli Stati Uniti e l’Europa portando nei teatri uno spettacolo musicale francescano negli intenti ma geniale nel risultato. Arriverà a colpire dritto al cuore anche i più giovani artisti provenienti dal pop-rock e ad influenzarne i personali progetti futuri, gli esempi potrebbero essere molteplici.
Ma Terry Riley non ambisce al pop, nemmeno al rock, era lì con la sua lunga tunica bianca, seduto per terra a gambe incrociate; d’innanzi alla sua persona un piccolo organetto elettrico a doppia tastiera modificato elettronicamente per ciò che concerne le uscite audio, queste collegate ad un semplice mixer ed un vecchio registratore a nastro magnetico. La distanza tra la testina di lettura e quella di scrittura del registratore portatile permette la creazione dell’estatico effetto delay (tape-loop) controllato direttamente dall’esecutore. Il canovaccio è semplice: una scala di note basse che vanno da Do a Do passando passo-passo tutte le intermedie, compresi i semitoni, il tempo è costante e diviso in multipli irregolari. Le molteplici linee melodiche vengono dettate invece dallo stato d’animo del musicista, sempre divergenti e spesso suggerite dall’ambiente in cui si trova a suonare, dalle persone in sala e quindi dal “climax” generale. Disciplina attenta ma non meticolosa, pulsazioni insistenti, ritmiche randomiche, rotazioni frenetiche che sembrano suggerire proprio la vertigine dei “whirling dervishes”. Riley guida l’ascoltatore in un’estasi trascendentale che si slaccia dalla gioiosa giostra sonora di “A Raimbow in Curved Air” a favore di una più intima esplorazione delle emozioni personali e degli anfratti più reconditi dell’animo umano. Forse l’unione della sensibilità propria di un musicista proveniente dalla campagna californiana, unita ai rituali fini al rilassamento, creano situazioni totalmente innocenti e al contempo talmente potenti d’aver indotto più di qualche persona in sala ad una sorta d’ipnosi non soltanto uditiva. Il merito di questo continuo contrarsi ed espandersi dei suoni, di questa “elasticità sinfo-spaziale”, è per la maggiore del mezzo elettronico, il delay appunto, ma proprio nel mentre ci apprestiamo a decifrare un messaggio musicale nascosto tra le suggestive sequenze ritmico-melodiche, ci si accorge stupefatti di come Riley in quei precisi momenti non fosse un semplice musicista con il proprio strumento, ma un nuovo strumento con il proprio esecutore; non si possono slegare quelle dita che inseguivano la tastiera dalla semplice combinazione “macchina-uomo” / “uomo-macchina”. L’aver posto l’esecuzione in una condizione di personalità orchestrale e non il contrario (che è poi la normale consuetudine) è probabilmente l’idea più geniale di questo mite essere umano.
Il doppio album dal vivo titolato "Persian Surgery Dervishes", uscito per il mercato francese nel 1972, cattura due momenti ben distinti delle esecuzioni di cui si parlava; nel primo disco l’interpretazione dal vivo registrata a Los Angeles il 18 aprile del 1971, nel secondo quella a Parigi il 24 maggio del 1972. In entrambe è ben evidente il concetto d’improvvisazione basata sulle "frequenze climatiche" instaurate tra il luogo o l’intera sala da concerto e l’esecutore a terra. La prima piuttosto frenetica e disinvolta come ci si aspetterebbe da qualunque ambiente o personalità appartenente ad un contesto metropolitano. La seconda maggiormente intimista e poetica, legata al classico atteggiamento naïf mitteleuropeo. Terry Riley è stato tra i primi nel campo dell’avanguardia seria a porre in risalto il feedback tra il creatore del suono e l’ascoltatore, prima soprattutto di quel feedback sintetico (il mezzo ma non lo scopo) generato dai poveri apparati elettronici a disposizione; lo seguiranno a ruota anche alcuni guru provenienti dai freddi laboratori di ricerca ma questa, oltre ad essere un’altra storia, risulta decisamente priva del fascino discreto dell’opera in questione.
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