Tra gli appassionati di musica d’avanguardia il nome di Terry Riley è tra i benemeriti, Maestro tra i Maestri: protagonista – insieme a Philip Glass e Steve Reich – dell’evoluzione culturale di un genere inizialmente di nicchia, che dalla fine degli anni Sessanta ha saputo conquistare notorietà anche per la palese influenza su artisti di grido (la ‘San Jacinto’ di Peter Gabriel, per esempio, o i King Crimson di ‘Discipline’). Parliamo del Minimalismo, corrente cui Terry Riley aderisce non in modo esclusivo com’è invece per Glass, visto che tra i suoi lavori ci sono molti esempi di ‘phasing’ ed altre esperienze non esattamente riconducibili a quella forma musicale che sostanzialmente applica il principio per cui ‘la ripetizione è una forma di mutamento’. Dopo aver contributo alla nascita del movimento minimalista con la sua opera più famosa, ‘In C’ (1964), Terry Riley si distingue per le sperimentazioni sulle differenti scale musicali, intervalli microtonali, dissonanze controllate e strutture musicali ispirate a quelle orientali, tutta roba che oggi come oggi è stata tranquillamente interiorizzata da migliaia di artisti – frugate nel catalogo ECM o ascoltate gli Oregon – ma negli anni Sessanta e Settanta rappresenta una vera rivoluzione musicale.
All’inizio degli anni Ottanta, accogliendo la suggestione del ‘Well Tuned Piano’ di La Monte Young, Riley concepisce un’opera per pianoforte ‘in just intonation’, ovvero accordato secondo l’intonazione naturale (fondata sulla successione naturale degli armonici), inventata in età greca ma teorizzata ed applicata a partire dalla metà del Cinquecento. Trascuriamo pure la parte tecnica della ‘just intonation’, che eventuali interessati possono facilmente approfondire in rete, per sottolineare l’avvolgente effetto sonoro creato dall’accavallarsi degli armonici e dal particolare riverbero che in tal modo si crea nella pancia del Bosendorfer di Terry Riley. Il carattere certamente ipnotico, ma in qualche modo ancestrale della composizione (ricordiamo che lo strumento suona secondo una scala meno artificiale di quella inventata da Guido D’Arezzo), induce Riley ad intitolarla ed ispirarla alla leggenda dell’arpa ritrovata nel 1579 da uno sciamano pellerossa nella zona della Nuova Albione, oggi San Francisco: la leggenda narra che l’uomo pose lo strumento sulla sommità di un picco, dove fu il vento impetuoso a suonarne le corde per anni. Ho parlato di composizione, ma si tratta piuttosto di una lunga improvvisazione (110 minuti circa) in dieci movimenti, che il compositore sviluppa in modo estremamente fluido, lasciandosi andare al flusso degli armonici e seguendo parzialmente i canoni del Minimalismo ma limitando gli eccessi nelle ripetizioni (cfr. Philip Glass, ‘Music In 12 Parts’), soprattutto perché l’effetto di totale avvolgimento e quasi di ‘delay’ è già ampiamente ottenuto dall’utilizzo della just intonation.
Ma ora basta con le spiegazioni (pur necessarie) sullo strano suono ‘scordato’ che molti percepiranno al primo ascolto, per restarne magari stregati dopo qualche minuto: l’altra particolarità di ‘The Harp Of New Albion’ è l’incredibile lirismo della composizione, che sarebbe invece ipoteticamente penalizzata dalla differente accordatura del pianoforte, dalla struttura minimalistica adottata e dal fatto che si tratta di un’improvvisazione in alcune parti praticamente atonale (per forza, con una scala diversa!). L’ascolto del doppio vinile o CD diviene ben presto assorto, magico, senza tempo e senza i consueti punti di riferimento tonali, i brani risultando stranamente paragonabili agli esperimenti ambient di Erik Satie se li avessero composti ed arrangiati Klaus Schulze o Brian Eno. Pur senza le note tecniche di phasing di Steve Reich (soprattutto nella memorabile ‘Violin Phase’) e senza l’ampiezza di visione delle opere maggiori di Philip Glass, dove nel primo minuto già s’insinuano gli elementi musicali che finiranno per stravolgere l’opera venti minuti dopo, ‘The Harp Of New Albion’ raggiunge il risultato di essere un pregevole esempio di musica minimale, straordinariamente complicato dal punto di vista compositivo (il punto centrale tonale dell’accordatura è in questo caso il Do Diesis, ma nessun brano è in chiave di Do Diesis!) eppure fortemente emozionale, caratteristica che nell’ambito della musica contemporanea non è dato riscontrare di frequente (il piacere che offre è piuttosto di tipo intellettuale, come nella pittura astrattista) e non è neppure troppo perseguito dagli stessi compositori.
Scrivo queste poche righe nella consapevolezza di non poter rendere il carattere alieno eppure ancestrale di ‘The Harp Of New Albion’, e di poter solamente suggerire una porta d’accesso affascinante al lavoro di un musicista che ha avuto un’influenza enorme sulla musica della seconda metà del Ventesimo secolo. L’eventuale approfondimento delle opere di Terry Riley non potrà non incoraggiare un incontro con Steve Reich, Philip Glass, John Adams, Glenn Branca, Tony Conrad ed altri, sino ovviamente ai grandi precursori: Gyorgy Ligeti ed Edgar Varese, tanto per dire. Buon ascolto: il disco non è facilissimo da rintracciare ma è tutto su YouTube.
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