C’è una scena del film The Wrestler di Darren Aronofsky. Mickey Rourke, e Marisa Tomei sono in un pub; bevono birra e la radio passa “Sweet Child O’ Mine” de i Guns N’ Roses. Questo momento segna in qualche modo l’intera trama nel film e l’esistenza e vicissitudini dei due protagonisti; sono pochi istanti in cui sembra tutto possa succedere: si lasciano trasportare dalle emozioni e dall’entusiasmo e viaggiano venti anni indietro nel tempo; sono di nuovo ragazzi e, davanti a loro, tutte le porte sono spalancate. Il futuro gli sorride. Ma è una questione di attimi, perché questo sarà solo un giro di ballo e alla fine ritorneranno con i piedi per terra e alla realtà che li circonda. Il tempo è passato inevitabile e così sono inevitabili le ferite che si portano dentro e che non possono essere rimarginate. Oppure che tutti e due non vogliono rimarginare. In ogni caso, ritornare indietro nel tempo è impossibile. Quei venti anni hanno cambiato tutto e nulla sarà più come prima.
Venti anni cambiano molte cose. Mickey Rourke dice che a un certo punto sono arrivati i Nirvana e quel “finocchio” di Kurt Cobain e hanno fatto piazza pulita di tutta la musica e le band degli anni ottanta. Una intera generazione musicale, di colpo, relegata, cristallizzata in una determinata fase storica.
Si è dibattuto lungamente, nel tempo, degli anni ottanta. E’ una discussione ricorrente, perché trattasi di un decennio generalmente considerato in modo negativo, ma che, ultimamente, sembrerebbe essere oggetto di revisioni e di riabilitazione. Questo anche perché probabilmente tanti nuovi “critici” hanno vissuto i loro anni d’oro nel corso di quel decennio e, si sa, ciascuno avrebbe la tendenza a considerare i propri anni di gioventù come quelli migliori, quelli storicamente più pregnanti. In ogni caso, qualunque siano le conclusioni, furono quelli degli anni in cui si diffuse, tra le tante cose, il gusto per una certa estetica di tipo patinato. Relativamente la musica rock, in particolare, si affermarono delle band e degli artisti che, in qualche modo, si sforzarono di riportare in auge la figura della “rockstar”, intesa come figura mitica, dall’esistenza sopra le righe. I vari Guns N’ Roses e Aerosmith, per citare due delle band più popolari e tipiche dell’epoca, si rifecero dichiaramente agli Stones, risultandone alla fine una specie di parodia (peraltro, appunto, patinata). Conducevano un’esistenza manifestamente e di chiaramente esagerata. Sfacciatamente sbattevano in faccia a tutti gli ascoltatori questa loro vita eccitante e fatta di esagerazioni, di sesso, droga e rock’n’roll. La loro vita era un vero show e questo, sul piano strettamente culturale, fu un colpo durissimo alla società dell’epoca: la forbice che divide i musicisti dagli ascoltatori, e dunque dalla realtà, ritornò ad allargarsi in una maniera irreparabile e probabilmente, sotto certi aspetti, definitiva.
Naturalmente in quegli anni si affermarono pure delle altre band, dove quelle più popolari, specialmente nella vecchia Europa, mantennero un profilo sicuramente più basso. A livello di contenuti. Mancando di questa ispirazione e atteggiamento tipicamente machista dell’epoca, si fecero, al contrario, portatori di contenuti e messaggi di tipo claustrofobico. Piuttosto che spavaldi e facili al successo, avvezzi alla popolarità, questi apparivano chiusi in se stessi e erano proprio queste sensazioni e feeling claustrofobici e di forte insofferenza che trasmettevano e li mettevano in uno stato di ideale comunione con gli ascoltatori. Che chiaramente, in molti casi, trovavano più “giusto” identificarsi nelle loro canzoni che in quelle di rockstar che vivevano in una dimensione che non gli apparteneva e che non gli sarebbe mai potuto appartenere.
Il risultato, tuttavia, nel complesso fu parecchio frustrante. Perché nessuno di questi due movimenti diede realmente sfogo e ampiezza alle personalità degli appartenenti a una intera generazione e, quando in questo contesto, tra la fine degli anni ottanta e, in modo assai più esponenziale, all’inizio degli anni novanta con la pubblicazione di Nevermind, si affermarono i Nirvana; fu allora che quel finocchio di Kurt Cobain venne accolto come se fosse un messia.
La figura di Kurt Cobain rompeva con tutta quella che era stata l’estetica del decennio precedente. Questi, infatti, appariva manifestamente fragile; la sua struttura fisica era esile e dall’aspetto quasi femmineo. Appariva efebo, una specie di ermafrodita e vulnerabile come se fosse Gesù e, come Gesù, fu crocefisso. Solo che dopo tre giorni non resuscitò affatto; forse perché aveva paura che, piuttosto che cambiare il mondo, alla fine sarebbe stato questo a cambiare definitivamente lui. Era troppo coinvolto dal successo e tutto quello che gli stava accadendo e, poco importa, alla fine, se sia stato ucciso o si sia suicidato. Quello che conta è che purtroppo non ci sia più. Ciononostante, le sue canzoni e la sua profonda sensibilità lasciarono il segno e furono destinate a cambiare in qualche modo tutta la musica che sarebbe seguita nel ventennio successivo e fino ad oggi.
L’impatto della musica dei Nirvana e di Kurt Cobain sulla scena fu devastante. Fosse capito o meno da tutti quelli che ascoltarono e comperarono i suoi dischi; che andarono ai suoi concerti; il successo dei Nirvana fu in ogni caso planetario e universalmente riconosciuto; la sensibilità che Kurt Cobain esprimeva nei testi delle sue canzoni e pure sul palco, dove esorcizzava le sue grandi paure e la sua tristezza interiore con delle manifestazioni erroneamente descritte nel tempo come atti di ribellione e di pura rabbia, lasciarono il segno. Riscossero condivisioni a tutti i livelli e il suo successo seguì pure la sua morte sanguinosa.
Dopo il boom dei Nirvana in tutti gli Stati Uniti nacquero centinaia, migliaia di band. Ovviamente ci sono sempre state centinaia e migliaia di band, ma per tutte quelle che vennero dopo, i Nirvana e Kurt Cobain furono un punto fermo, una fonte di ispirazione. Tra queste vi erano (e forse ci saranno, dato che si parla della possibilità di una reunion) i Come di Boston del chitarrista Chris Brokaw (già batterista de i Codeine e negli anni più volte impegnato in vari progetti musicali solisti e non – tra questi pure i Dirtmusic) e soprattutto della vocalist Thalia Zedek.
I Come, di cui l’etichetta Thrill Jockey ha recentemente ristampato il loro disco capolavoro Eleven:Eleven, non raggiunsero mai grande fama negli USA e, di conseguenza, in Europa. Come detto, infatti, gli anni ottanta avevano definitivamente creato un gap incolmabile tra musicisti e la grande generica massa degli ascoltatori. Che adesso erano diventati pigri e generalmente disinteressati; rassegnati al loro ruolo, assolutamente marginale, di semplici spettatori; a specchiarsi inutilmente in delle esistenze e personaggi lontanissimi dalla loro realtà. Si affermava un sistema sociale fondato sulla cultura drogata del culto dell’immagine e dove era divenuto praticabilmente impossibile per una band come i Come affermarsi presso il grande pubblico.
Il loro sound era un mix delle sonorità più hard che furono tipiche proprio degli stessi Nirvana e quelle, invece, di altre di band e artisti che da sempre avevano dimostrato un certo gusto e predisposizione verso la musica blues. Es. Nick Cave & The Bad Seeds Lydia Lunch. L’attività della band continuò per tutti gli anni novanta fino a interrompersi bruscamente agli inizio del nuovo secolo. Allora, Thalia Zedek si dedicò a una produzione di album da solista e, dall’anno 2004, quello in cui pubblicò il disco Trust Not Those In Whom Without Some Touch Of Madness, cominciò una preziosa collaborazione con l’etichetta discografica Thrill Jockey. Una partnership affatto casuale, considerando che l’etichetta di Chicago si sia storicamente distinta ,tra le migliori del continente nordamericano, per un particolare gusto e preferenza e cura nei confronti di artisti che si distinguano perché fortemente rappresentativi di importanti fenomeno di costume e sociali all’interno di quel grande e gigantesco paese, almeno geograficamente, che sarebbero gli Stati Uniti d’America.
Per quanto mi riguarda, il suo disco precedente, Via, che non a caso annovero tra i migliori dischi usciti nell'anno 2013, fu una vera e propria rivelazione. Fino a allora, infatti, ero cieco. Ero cieco perché, nella mia infinita piccolezza, ritenevo ancora per lo più fosse troppo difficile ritrovare e ritrovarsi nei contenuti delle canzoni scritte da una vocalist donna. Ma dischi come questo, Via, oppure quello di Scout Niblett, non a caso un'altra donna fantastica, ritengo possano insegnare a tutti qualche cosa su se stessi. A prescindere dal proprio sesso e dalla propria età, dalla propria appartenenza sociale e dal posto in cui siamo nati, dove viviamo.
Allora, adesso, ecco Six, questo extended play pubblicato nei primi mesi del nuovo anno 2014. Intanto, è bene dire che, nonostante si tratti di un ep, la durata del lavoro non sia affatto breve come dovrebbe essere da routine. Del resto, oggi, probabilmente avrebbe senso ancora meno di ieri fare distinzioni tra lp ed ep. L'abitudine a ascoltare musica in tutti i formati possibili ci ha staccato definitivamente dal legame e dal vincolo del "formato" e questo, per quanto mi riguarda, è un bene. Pure a livello concettuale: non ci sono in tal senso più limiti alla libertà di espressione di un artista. Non ci sono più limiti temporali, ecco che cosa voglio dire. A livello di contenuti, invece, se Via fu una rivelazione, Six costituisce invero per l'ascoltatore un vero e proprio ritorno in una sorta di placenta ideale, dove lasciarsi idealmente cullare dalle melodie e dalla voce ipnotica di Thalia Zedek. Una capacità, quella di ipnotizzare gli ascoltatori, particolarmente marcata in tracce come "Julia Said" e "Flathand" e dove, volendo tracciare un parallelo, potremmo considerare come, se Thalia Zedek fosse italiana, allora probabilmente sarebbe Nada. Tutte e due possiedono una grande forza e tutte e due sono forse troppo speso troppo poco comprese e considerate dalla grande massa degli ascoltatori. Il disco si chiude con "Afloat", un lungo viaggio psichedelico dalla durata superiore a sette minuti e che di suo varrebbe da solo il prezzo del biglietto
Dichiaramente lesbica, nel panorama musicale internazionale di oggi e in quello sociale tutto, una donna come Thalia Zedek appare lontana anni luce da tutti quelli che possono essere i tipici stereotipi legati alle figure femminili. Naturalmente non è una groupie e neppure una sacerdotessa del rock come avrebbe potuto essere a suo tempo Nico; non è una donna tutta scollature e sculettamenti e neppure una di quelle superdonne-manager, figura mitica secondo la quale la donna avrebbe oggi infine emancipato se stessa. La grandezza di Thalia Zedek, infatti sta nel fatto ella sia semplicemente donna. Una donna forte e in tutte le accezioni possibili. Musicisti come lei ci dimostrano, oggi, come sia ancora possibile e abbia ancora senso fare della autentica musica rock senza essere schiavi della cultura dell'immagine e affetti da alcuna mania di divismo. Senza essere schiava neppure di se stessa, con Six, Thalia Zedek ci dimostra come lei, io e tutti voi, noi tutti siamo uguali; che non abbiamo alcun gap da colmare tra quello che siamo e quello che vorremmo diventare, ma dovremmo semlicemente essere.
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