“To me, there's nothing on earth other than women. It's why I get out of bed every morning.” (James Ellroy)
Afghan Whigs. Tredici anni dopo. Il corredo estetico a cui fa ricorso la memoria è da film noir anni quaranta (non a caso Greg Dulli, il bandleader, è avido lettore di Ellroy): una Los Angeles nera e crepuscolare, mozziconi semispenti e un bicchiere vuoto, tiepidi raggi dell’alba a illuminare ciò che resta di una notte consumata nel desiderio e nel rimpianto, il volto di lei a reclamare ancora e ancora una volta il proscenio della mente.
Dulli in questi tredici anni, in realtà non è stato inoperoso e tra Twilight Singers e progetti paralleli (tra cui vale la pena ricordare i Gutter Twins con Mark Lanegan) è sempre rimasto con noi, instancabile Caronte, attore shakespeariano ruffiano e compassato, compagno di sbornie, diva in bianco e nero ritratta nell’istante sublime e straziante del suo inarrestabile declino. Si è confermato, tra alti e bassi, eccellente interprete di torch songs fuori dal tempo, cantore perfetto di quella sottile linea d’ombra che divide il giorno dalla notte. Nel 2001, dopo lo scioglimento dei Whigs e al centro della sua personale stagione all’inferno, si era ridotto a fare il barman; perso in un vortice di droga e dipendenze variesenza toccare la chitarra per un anno. Il video di “Algiers” ce lo restituisce leggermente ingrassato ma non domo, con occhialoni scuri e completo da pappone a confermare l’indole luciferina e provocatoria del personaggio.Ma veniamo alla domanda che qualunque fan della band di Cincinnati si sarà posto: Ha senso una reunion con 2/4 della band originale e dopo quasi tre lustri di assenza, periodo di tempo in cui il mondo del pop-rock è drasticamente cambiato e non certo per il meglio? Per il sottoscritto la risposta è affermativa. Il songwriting non è sempre eccelso, forse potevamo risparmiarci senza rimpianti la tirata hard trash di “Parked Outside” e la bella ma scontata “Algiers” e onestamente anche “Can Rova”, che non dispiace ma non riesce a imprimersi nel ricordo anche dopo ripetuti ascolti. Nonostante questo, il disco regala alcuni tra i pezzi migliori di Greg degli ultimi 10 anni: la ballata soul “It Kills” (“mi uccide vederti amare un altro”) che trascende il dolore dell’assenza, con l’ululato alla Clare Torry di Van Hunt (quasi un coro greco lo definisce Dulli), il crescendo finale della grandiosa “These Sticks” (che all’inizio cita neanche troppo velatamente “Street Spirit” dei Radiohead), gli Zeppelin ammodernati e virati dance funk di “Matamoros”. “Lost in the Woods” con l’alternarsi di piano-voce crepuscolari e aperture pop solari si conferma un’altra perla del lotto. Ottime anche “The Lottery” e “Royal Cream”, che paiono outtakes rispettivamente di “Black Love” e “Gentlemen”, senza raggiungere mai le vette di quei due album epocali.Alla fine dell’ascolto, ci si accorge che i fasti del passato non verranno forse più raggiunti, ma la varietà complessiva e il valore indiscutibile di alcune tracce, ne fanno un lavoro più che dignitoso, lontanissimo dall’effetto amarcord che inevitabilmente grava su operazioni di questo tipo.In un mondo in cui le rockstar (o presunte tali) fanno a gara nel citare questo o quell’artista “cool” del passato, e in cui il buonismo e la morale da due soldi si spreca, come ave maria alla messa delle sei; Dulli non ha consigli da dare e potrebbe far sua quella splendida frase di Nabokov: “Non sono un cane che corre da voi scodinzolando, con una verità in bocca”.
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