Un tuffo al cuore

Emozioni che trapassano l’infinito per arrivare dritte al centro dell’anima, ferite laceranti, abissali, che risvegliate provocano estasi e tormento.

In “Gentlemen” convergono tutti gli elementi sonori più disparati (Art-Rock? Concedetemi questa piccola definizione) che rendono le canzoni atti di autoflagellazione dell’anima, pezzi di cuore senza padrone destinati a far vacillare le coscienze di chiunque si approcci per la prima volta all’ascolto di questo album, sensazioni e sapori che si mantengono inalterati anche dopo continui e svariati ascolti, come a stamparsi definitivamente in fondo all’anima. Ascoltandolo mi dà come l’idea di un sottomarino sommerso in fondo agli oceani, dimenticato da tutti e poi improvvisamente destinato a riemergere sotto le torbide acque, facendo venire allo scoperto tutti i suoi tesori nascosti, pronti a risvegliare e a conferire nuova linfa a chi si è oramai addormentato da anni...

Le note iniziali con cui si apre l’album (che equivale, simbolicamente, alla netta recisione del cordone ombelicale che ci tratteneva nel tiepido tepore di chi ci ha generato) danno vita a queste sensazioni estreme, una carica emotiva difficilmente eguagliabile sottoforma di note, anche per un movimento come quello Grunge, così fortemente caratterizzato dalle vicende umane e disperate dei musicisti che lo hanno reso celebre, e spesso finite in tragedia.

L’evoluzione stilistica e di ricerca sonora della band qui giunge al suo naturale compimento, grazie agli innesti su di una ruvida scorza grunge di una perfetta fusione tra elementi Soul, Funky e psichedelici.

L’attacco di “Gentlemen” con quella voce così fortemente espressiva, leggendaria nei suoi slanci emotivi e nelle sue dichiarazioni d’intenti, così passionale sia nelle sue confessioni a cuore aperto, che nei momenti orgiastici di pura rabbia e perversione è assolutamente da considerarsi una delle perle più rare dell’età aurea di tutto il rock a stelle e strisce targato anni’90.
Dal riff di “If I Were Going” così profondamente emotivo, con la voce di Greg Dulli che ci culla e ci conduce all’inizio di questo viaggio, ecco che dopo pochi e sconnessi attimi di vuoto intervallati dalla batteria si fa largo la title-track, dove il riff di chitarra squassa tutto, seguito dall’entrata in azione del singer. Uno dei momenti di pathos più alti dell’intero album, questi pochi e così intensi secondi della canzone si ricollegano secondo la mia particolare visione alla nascita dell’individuo, quando le dolci note della prima canzone non sono altro che una prefazione all’inizio della vita, “Gentlemen” è manifesto e metafora dell’inizio dell’esistenza, così piena di insicurezze e di paure, ma necessaria per “esistere” e dare testimonianza di sé; veicolo fondamentale negli anni per ricucire gli strappi e le ferite che sanguinano, destinate a infettarci dentro inevitabilmente.

E’ questo forse il senso ultimo di “Be Sweet”, altro grandissimo capolavoro del disco, quando proprio nella parte finale del pezzo Dulli dice:

"So understand
Now that I come to you
To understand my little self
To understand my little self
And baby you be sweet...”

Tutto l’album è pervaso da una insana voglia di confessarsi senza remore, senza barriere, un concept sull’amore e sulle sue deviazioni più morbose, confessioni che passano attraverso il riff obliquo e maledetto di “Debonair”, al cantato sofferto e intriso di malinconia di “What Jail Is Like”, alla Psichedelia delicata di “When We Two Parted”; soffice impalcatura sonora sorretta dalla forza delle parole di un testo meraviglioso e istintivo che ci porta indissolubilmente all’abbandono, ad una catarsi liberatoria, in un crogiolo di emozioni inesplicabili a parole. Solo le lacrime forse possono tentare di spiegare tutto ciò che attraversa l’anima, come una lama che ti si conficca dentro, nel profondo, mentre Dulli canta nel finale:

“Out of the night we come
And into the night we go
If it starts to hurt you
Then you have to say so...”

Come nell’accorata dichiarazione d’intenti di “Fountain and Fairfax”, dove Dulli confessandosi al suo amore dice di non poter tenere fede alle promesse fatte e ritorna così nel vortice di perversioni che lo accompagnano, fino alle dolcissime ma allo stesso tempo crudeli visioni dell’amore, pregne di venature Soul e Blues di “My Curse”, impreziosita dalla calda voce di Marcy Mays, e di “I Keep Coming Back”, e dal classico Grunge rumoroso e acido di “Now You Know”, che dipingono un affresco sonoro altisonante e pieno di doppi sensi, un’opera che ha la sua grande forza proprio in questa sua doppia ambivalenza: rapporti d’amore tormentati, di persone che non si sono mai completamente capite, rapporti di persone che (può darsi anche che Dulli in queste canzoni, stia in realtà parlando con la visione distorta del suo io) vivono tra rancori e fortissime passioni in un continuo gioco di colori tra l’azzurro tenue del cielo e il rosso porpora dell’inferno. Un gioco di amore e di odio destinato a prolungarsi per l’eternità, senza che nessuno dei due possa avere la meglio sull’altro.

La chiusura dell’album è affidata ad uno strumentale da brividi, “Brother Woodrow/Closing Prayer”, infatti, è la degna conclusione oltre che una perfetta colonna sonora finale per il tumultuoso climax di rapporti interpersonali descritto e raccontato in “Gentlemen”, quasi che ascoltando queste canzoni si stesse assistendo in realtà ad un film, non a caso infatti nell’ultima pagina del booklet al posto della classica dicitura “recorded on” c’è un più appropriato “shot on location”… Mai una fine è stata così dolce, semplice e pregna di significati e, nonostante la recensione del disco fosse già presente, la voglia di raccontarlo a modo mio, con tutte le emozioni e il riaprirsi e lo schiudersi di ferite che spesso si rifanno vive durante il suo ascolto (e che tutti quanti noi portiamo bene o male dentro l’anima), è stata troppo forte.

Cos’altro dire? Gli Afghan Whigs sono e resteranno per sempre una delle mie band preferite, una di quelle (tra le tante) che più mi ha dato a livello emotivo e concettuale. Un pezzo di storia di tutto il rock americano, l’aggettivo che più mi viene in mente in questo momento è: “Indimenticabile”... Ma per davvero, uno dei dischi più “belli e sentiti” che io abbia mai ascoltato.

Chapeau.

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