Apro tra le mani la copertina del vinile, ed il faccione dell'automa nella sua fierezza domina l'avveniristico ambiente. Poi la capovolgo verso il lato interno e compare Alan, i suoi capelli, la camicia da boscaiolo e la fessura tra gli incisivi così umana. "I robot" è questo, nè più ne meno.

Una lotta per la predominza tra uomini e macchine, macchine costruite dall'uomo e poi macchine costruite da altre macchine. Ispirato al romanzo "I, robot" di Isaac Asimov (dal quale scompare la virgola per mere ragioni di copyright) l'ellepì esce nel 1976 per l'Arista, e segue direttamente quel "Tales Of Mystery And Imagination - Edgar Allan Poe", convincentissima opera d'esordio, innovativa e bellissima. L'opera è un concept che si dipana in atmosfere gotiche, in un climax di crescenti toni lugubri, a sottolineare l'ascesa degli automi ed il contemporaneo eclissarsi dell'uomo.

Si parte con "I robot": la title-track è un'affascinante strumentale, dominata da suoni elettronici e con una sezione ritmica in evidenza (Stuart Tosh alla batteria, David Paton al basso. La formazione base è completata da Ian Bairnson alla chitarra e dagli autori alle tastiere) che conducono ai famosi "campanellini" del finale. Poi la scanzonata "I wouldn't want to be like you", in cui la voce "nera" di Lenny Zakatek sembra rivolgersi agli automi... "Io non vorrei essere come voi". Viene poi un trittico, a mio avviso, la migliore sequenza di brani dell'intera discografia; "Some Other Time" è una struggente ballata in cui avverto una presa di conscienza da parte dell'umanità. È cantata a due voci, quelle di Peter Straker e di Jaki Whitren, di sesso diverso ma così simili da confondersi perfettamente. La confusione si instaura, "dove sono tutti gli amici che mi parlavano?" è uno degli interrogativi della quarta traccia, "Breakdown", dove il sofferto canto di Allan Clarke sfocia in un coro (di robot? O di uomini nei confronti della minaccia? Molti gli episodi di ambiguità dell'album): "Libertà, libertà, noi non obbediremo!". Il lato A termina con la bellissima ballata, molto Parsoniana, "Don't Let It Show", in verità piuttosto estranea al concept. La voce, da brividi quando accompagnata dall'organo, è quella di Dave Townsend (ammetto che per i vari cantanti ho fatto una ricerchina, poichè nei crediti dell'ellepì compaiono in ordine alfabetico...) Pausa.

Si risistema la puntina, e parte "The Voice". Al cantato c'è Steve Harley e l'ossessivo giro distorto "He's gonna get you" lascia intendere una presenza robotica che spia tutto e tutti, quasi Orwelliana, minando definitivamente la libertà umana: "Non hai scelta, perché non puoi scappare dalla Voce". Segue la seconda traccia musicale: "Nucleus" è incentrata ancora su sonorità elettriche, poiché il mondo esterno è ormai quasi dominato dalle macchine. Apertura musicale: la dolce voce di Jack Harris (che passerà alla storia, almeno per me, con la straordinaria "Pyramania" dell'album che verrà) gioca con i ricordi d'infanzia, i momenti col padre... fissa il cielo di un mondo che per lui non è più libero, perché dominato dagli automi. Ma, come dice il titolo, "Day After Day (The Show Must Go On)". Ma il destino è compiuto; "Total Eclipse" (arrangiata dall'orchestratore Andrew Powell, colonna portante del progetto con Parsons ed Eric Woolfson) è emblematica: nel titolo, nei toni cupi e gotici come non mai, nei cori. Sembrerebbe finita, insomma, è come se i robot, creati dall'uomo a loro immagine, avessero preso il loro posto, arrivando a riscrivere la storia e, perché no, la Bibbia: un nuovo versetto al primo capitolo della Genesi, "Genesis, Ch. 1, V. 32". Oppure è l'uomo che tenta la ribellione, ed è lui ha scrivere questo nuovo capitolo ? Per quanto mi riguarda è l'ennesima ambiguità di questo album fantastico, la sua forza. Caratteristica peculiare del Progetto, quella delle voci ospiti: le interpretazioni dei vari cantanti arrivano ad esprimere quello che immaginano Parsons e il fido Woolfson (manca invero la sua bellissima voce, in quest'opera).

Anche quest'album è pervaso da un'alone di atmosfera incredibile, come in ogni loro lavoro degli anni '70: è vario, cupo, inclassificabile in un genere ed incancellabile nell'anima.

È... Meraviglioso.

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