Gli Alley Cats si formano negli anni ’70 e pubblicheranno solo due album, di cui uno è un caposaldo indiscusso del punk. “Escape From The Planet Earth” (1982) è uno di quei esempi sani di come il rock autentico faccia emozionare e soprattutto riflettere. L’empatia è cercata e pienamente ottenuta, ed è forse la base da cui bisogna partire per assaporare questo album meno banale di come può apparire. In secondo piano ci mettiamo la tecnica micidiale dei tre componenti della band, la quale non può certo guastare. L’anima punk di Randy Stodola e compagni farebbe arrossire qualsiasi seguace dei moderni Pete Doherty di ‘sta ceppa: malinconici, potenti, rabbiosi, fantascientifici, gothic, non lontani nella profondità dalle origini poetiche del punk (Patti Smith, ma solo per la profondità mica per l’esecuzione) ma lontanissimi dalle furie industriali di Detroit (Stooges, MC5) e in qualche modo vicini alle rivoluzioni che hanno portato il reggae in questo genere.
La fuga dal pianeta Terra che tentano gli Alley Cats è purtroppo solo metaforica, come tutti noi anche loro sono costretti a rimanerci, ma su questa terribile condizione – una moderna presa di coscienza della alienazione industriale (uno dei temi portanti della new wave fra l’altro), gli Alley Cats ci costruiranno un sound unico e irripetibile. Se i Pere Ubu utilizzavano i rumori, il teatro dell’assurdo e le tastiere minimali e nevrasteniche di Ravenstine per descrivere la moderna alienazione, Stodola, Dianne Chai e John McCarthy più limitati dalle loro comunque straordinarie capacità, si rifugiano in un sound che ha tutte le caratteristiche tecniche di un punk spigliato, aggressivo sì ma non troppo da risultare gratuitamente provocatorio, ma che in realtà suona profondamente tetro e introspettivo.
L’unico momento rock è l’assolo finale di Waiting For The Buzz, il resto è punk californiano alla nuova maniera, seminando per strada molte impressioni e idee che saranno riprese a piene mani da tantissime band successive. L’album si apre con la title track, Escape From The Planet Earth: uno dei più grandiosi pezzi punk-rock della storia. La voce di Stodola (piuttosto bassa, invece degli acuti nervosi cdi molti cantanti punk dell’epoca) ricorda un Joe Strummer disilluso, aiutato di sovente nei cori da una esotica Dianne Chai, l’aria che tira non è proprio delle più positive, ma la musica è impressionante nella sua immediatezza con una potenza espressiva incredibile. Si sente il grido di dolore, come si percepisce chiaramente anche la palese sconfitta della band, siamo agli antipodi della denuncia surf-punk degli X, si inveisce contro un malessere intangibile e come tale imbattibile.
Non c’è un pezzo che lasci insoddisfatti, semmai ci sono alcuni capolavori che si stagliano decisamente sugli altri pezzi. Tra questi la straordinaria Night Of The Living Dead, dalle atmosfere profondamente gothic, la dimensione orrorifica in The Alley Cats è davvero sanguinolenta e oppressiva. Bellissima anche Just An Alley Cat, solita storia del ragazzino di diciassette anni che lascia la scuola (e che vive le sue giornate come un gatto randagio) ma immersa ormai in questa dimensione sonora che è una sorta di punk puro, scevro dalle infiltrazioni disco music di ultima generazione (il quasi-ignobile “Combat Rock” dei The Clash), ma la sua incorruttibilità non traspare tanto dalla musica quanto dallo spirito da cui essa è visitata (nota “heideggeriana” di discutibile valore).
Un disco imprescindibile, un capolavoro poco conosciuto forse, ma estremamente fruibile e godibile.
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