Non è strano sentirsi totalmente dimenticati anche quando viviamo una vicinanza? Ci sono rapporti che manteniamo nel tempo eppure una delle parti si scorda dell’altra. Succede. È simile all’approccio meccanico tra colleghi di lavoro ma nel sopracitato caso li reputiamo amici. Una fotografia sbiadita: l’illusione sta nell’attimo in cui è stata scattata, non nel tempo che l’ha deteriorata. Non è questione di convenienza nel rimanere legati, molte persone rimangono nelle nostre vite come fantasmi, per alcuni la maggior parte di esse.

Non riusciamo ad afferrare l’essenza di chi ci sta davanti, quello che creiamo è un quadretto abbozzato d’acquerelli fragili. Nella rincorsa a conoscere noi stessi in questa vita tendiamo a dimenticare che l’altro può aiutarci in egual misura nell’impresa. La conoscenza delle “cose” è secondaria dal mio punto di vista, è derivata comunque da un prodotto dell’altro da noi.

Io metto al centro dell’universo il fantasma di me stesso, il quale costantemente dimentica e viene dimenticato. Il tempo forse la fa da padrona, con chi abbiamo più a che fare abbiamo il fardello di scordare meno, d’impegnarci a scontornare l’amica/o, l’amante, la compagnia della vita. Ma la trascuratezza volteggia sempre sopra le nostre spalle.

Anche la “dear prudence” altro non è che diffidenza, una sorella vitale per moltitudini. Eppure non si è mai soli anche quando non abbiamo nessuno i fantasmi dei ricordi plasmano i nostri gesti. A volte mi domando se non sia più significativo uno sguardo intenso di uno sconosciuto piuttosto di due ore passate con la medesima compagnia dalla quale non sai aspettarti altro. Alcuni fuggono in luoghi cercando paradigmi più stimolanti, altri mettono radici prim’ancora mentali che fisiche. La differenza probabilmente la fa chi va via da dentro, disconoscendo sé stesso.

In questo momento come non mai sto abbracciando il dubbio come dottrina. Ciò implica altre questioni che possono essere reputate banali. Però lo stesso fatto che mi e ci mettiamo a scrivere lo trovo un atto stupefacente. Ci sforziamo di non essere dei fantasmi anche tramite i polpastrelli.

In questa cornice la musica non acquisisce una connotazione diversa da quella dell’inafferrabilità, però mi ricorda che lo scandire del tempo può non assumere la fissità scontata di una lingua che batte contro il palato, di un’asciugatrice che ronza, del suono che fa una pagina voltata. “Basta” sforzarsi di entrare nella nostra passione, abbracciare il suono che colora il tempo. Lasciamo che i nostri ascolti diventino reali e concentriamoci. Cerco di farlo ma a volte dimentico anche questo.

Sono le forme d’arte destinate all’immortalità e per questo uno sguardo ad un quadro, un ascolto di un disco è un momento d’immortalità o di elevazione.

Gli Antlers, o i loro fantasmi, li trovo eleganti, coi piedi per terra e la testa fra le nuvole. Non è musica sofisticata, ma brilla come le stelle in una notte tiepida. Col giusto volume e il giusto senso del dubbio che vi accompagna potreste arrendervi a queste melodie. Il disco si apre con un po’ di melassa, in effetti Palace sembra un Sufjan Stevens perso in un negozio di caramelle. Si prosegue in territori rarefatti con Doppelganger, dove all’inizio i miei pochi neuroni la richiamano al giovane Tom Waits e poi ai Lambchop più raffinati. Hotel forse rappresenta al meglio lo stile dei newyorkesi: immediatezza e un pizzico di eleganza eterea. Sicuro altri accostamenti riguardano i Walkmen, dei Wild Beasts rallentati, Elbow.

Familiars è un susseguirsi di fantasmi, figure per l’appunto familiari, ricordi, frammenti di vita, sprazzi di gioia e di dolore. È un waltz di un cuore che si dilata nello spazio cercando appigli.

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