Si presentano come una punk band proveniente dal Michigan. Informazioni essenziali e bocche cucite. La storia sembra quella di un poliziesco farcito di depistaggi e misteri. A partire dai membri effettivi che non sono mai stato veramente svelati, all’utilizzo di comparse e di pseudonimi sul set.
Quello che si sa è che si tratta di un supergruppo con alcuni membri stabili ed un imprecisato numero di turnisti che allunga la lista fantasma. Si parla tra gli altri di membri di Converge, Jane’s Addiction e Queens of the Stone Age. Per altro proprio Josh Homme se li è portati dietro nel recente tour americano.
Non manca una certa dose di spavalderia quando dichiarano di essere la miglior rock band del Mondo. E’ lecito però dubitare sulla serietà di tale affermazione vista l’indole goliardica del complesso. Basti vedere la copertina del precedente “Ultrapop” che sembra quella rassicurante di un Frank Ocean qualsiasi o il videoclip di “Sport of Form” dove compare Iggy Pop nelle vesti di Dio.
Il caos qui non è biografico e lirico, con i testi che rispecchiano le inquietudini dei nostri tempi, ma si riversa anche nel cuore di “Perfect Savoirs”. Una massa sonora più pettinata che in passato, ma che con timidezza fa qualche puntatina nella cacofonia.
Approcciandosi per la prima volta alla loro musica si rischia di rimanere un po’ storditi. Un grosso frullatore fatto di distorsioni, tempi dispari e finanche gentilezze che richiede qualche ascolto prima di essere digerito per bene. L’intelaiatura post-hardcore viene ibridata con parecchie tendenze alternative che hanno preso piede nei Novanta a stelle e strisce. Non mancano le partiture math-rock. L’utilizzo poi dell’elettronica crea un effetto distopico futuristico da luci al neon. La scorza sarà pure ruvida, ma il cuore è tenero e la tempesta sognante di “FKA World” posta alla posizione due inizia a dare i primi indizi.
Non mancano gli assalti frontali di “Clone” e “Modern Vanity” come la melodia di “Everything’s Glitter”. Uno dei pezzi più accessibili dove sembra di ascoltare i Weezer del “Blue Album” intenti a suonare sotto una forte dose di steroidi. In “Patient Mind”, al netto dei suoni sintetici, sembra di essersi sintonizzati su qualche vecchia fm del Midwest nostalgica intesa a riprodurre emo, mentre “Burned Mind” è puro stordimento sensoriale, roba da rave party illegali in qualche vecchia cascina abbandonata.
Quanto fin qui descritto viene smentito andando verso un finale con un bel cambio di abito bianco in bella vista. L’urgenza espressiva si stempera e si entra dentro un caleidoscopio prima con un sonetto semi-acustico e onirico (“In Heaven”) e poi con un numero jazz per trombe, chitarre e pianoforti (“Public Grieving”).
Sono le ultime note prima che le luci si abbassino e cali definitivamente il sipario su questo sfrenato spettacolo punk futurista.
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