Due scozzesi con trascorsi biografici alquanto "charmants" (uno cantante giramondo, spintosi fino al matrimonio posticcio pur di trattenersi ancora a New Orleans a carpire i segreti dei cantanti soul, l'altro studioso e praticante di quasi ogni aggeggio producesse musica; insieme poi, in patria, a far cabaret nei "Mental Torture", un gruppo il cui nome era tutto un paradosso) grandi appassionati di colonne sonore, di abbigliamento anni '50, di sesso senza confini precostituiti, di sostanze chimiche non esattamente legali... Globalmente eccentrici e raffinatissimi: ce ne sarebbe abbastanza per rendere Alan Rankine e Billy Mac Kenzie, in arte "The Associates", attraenti, e non poco.
Ma c'è, naturalmente, di più: talento, nell'inventare melodie che sbalordiscono per ingegno e colpiscono al punto da fissarsi nella mente, talento nel cantarle con sensibilità profonda e immagini ora crude, qualche volta astratte, in altre occasioni solo bizzarre ma sempre lontane da banalità e luoghi comuni, pur occupandosi "solo" di sentimenti. Questo "Sulk", uscito nel giugno '82 dopo una gragnuola di singoli (registrati di domenica notte per risparmiare sui costi e buggerare la casa discografica di turno) ed un primo LP che andava un po' a tre cilindri, contiene infatti semplicemente canzoni straordinarie. Già.... "Pop Songs"... Che era poi quello che suonavano (assieme a comprimari a regger la sezione ritmica e giusto qualche coro) con Duca Bianco e Roxy Music a fornire appena l'impalcatura mentre al resto, dai mattoni al più piccolo complemento d'arredo, pensavano loro; e per l'appunto, cura maniacale per il dettaglio ("...Quando registravamo non avevamo mai abbastanza tempo o piste...") ed una delle voci maschili più memorabili di sempre, sono altri caratteri distintivi della "griffe".
E allora via col "Top of the Pop": ...."No": struggente ralenti, intensa al punto da trasmettere un senso di gelo quasi fisico; "Bapdelabap": ritmo rotolante (qui, da sperimentatori bizzarri quali erano, la batteria ha tutti rullanti e nessun tom) e melodia che volteggia come una danzatrice classica per spiazzare poi tutti nel chorus; "Club Country": elegantissimo disco-rock con MacKenzie che si inerpica su impossibili salti di tono; "Skipping" altro scintillante invito alla danza con quello "Skip...Skip...Skipping" in coda che sembra il volo di un aquilone impazzito...
Album perfetto? La risposta è implicitamente negativa tanto che i punti di forza del loro linguaggio, ne rappresentano un po', paradossalmente, anche i limiti quando il pathos delle strepitose doti di McKenzie diviene eccesso melodrammatico (in particolare "Party Fears Two" peraltro splendida sul piano strumentale) e la ricchezza degli arrangiamenti sconfina nella sovrabbondanza di sovraincisioni ed effetti di studio. Qualche incertezza (inizio e fine dei lavori sono affidati a due strumentali che sanno di poco) e ritmica (non di rado in appalto alle drum machines) risultante nell'insieme monocorde, si aggiungono ad impedire che "Sulk", preso nell'insieme, entri a far parte dei grandi capolavori. Rimane comunque come detto, lo straordinario valore di alcuni brani, che colloca questi due dandy nel ristretto ambito di chi, canzoni, nel senso più intelligente e completo del termine, le ha sapute scrivere ed interpretare davvero.
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