“Alice nel paese delle meraviglie” nella prima stesura, per Carroll, è stata anche “Alice Underground”.

“Alice Underground” nel punk a stelle e strisce, per me, è stata Penelope Houston.

Nata a Los Angeles, il 17 dicembre 1958, cresce a Seattle. Nel ’77, a San Francisco, si iscrive all’Art Institute e fonda gli Avengers, di cui sarà cantante e compositrice. Cioè «entra nell’ordine delle idee di aspettarsi soltanto cose fuori dall’ordinario, poiché le sembrava piuttosto noioso e insulso che tutto procedesse nel modo consueto». Cade così nella tana del coniglio del punk, dove topi e conigli ti danno ordini, dove diventi continuamente più grande e più piccolo: «Non sono mai sicura di cosa sto per essere, da un minuto all’altro».

Dunque, prima del proliferare delle hardcore band (il paese delle meraviglie), furono gli Avangers, con le loro teenage rebel songs.

Gli Avengers, più o meno il primo gruppo punk della Bay Area, sono chitarra sferragliante e abrasiva, strutture secche e aggressività ritmica, l’impatto melodico di Penelope, slogan urlati con rabbia. Un sound grezzo, approssimativo, ruvido, tagliente, crudo e rovinoso.

Un flusso impetuoso di forza, compattezza e melodia. Il puro ribellismo giovanile, i richiami al rock’n’roll dei 60, l’istinto pop, la velocità d’esecuzione, durezza e spigolosità. Con un certo humor nero. Ma, soprattutto, pura passione spoglia. Disadorna. Non solo Ramones o Rotten e Vicious.

Energia, melodia, vituperio. Energia viscerale. Melodia diretta. Vituperio ingenuo, cioè un vagito spontaneo inneggiante alla rivolta sociale e culturale.

I brani qui raccolti sono tutti leggenda. Il cosiddetto “The Pink Album” uscì postumo nel 1983, all’epoca di “Confusion Is Sex” della Gioventù Sonica, lontano dai fatti dell’intensissimo biennio 77-78. Ci sono dentro i due EP prodotti all’epoca: il primo con l’anthemica “We Are the One” e il secondo (“White Noise”), con Steve Jones dei Pistols in cabina di regia, che offre anche le relative outtakes. In più ci sono un paio di partecipazioni a compilation. Superba è la cover stonesiana di “Paint It Black”. “Avengers” è un must have, nient’altro! Ed è come avrebbe suonato un loro album nel ‘79, se solo avessero conseguito la lunga distanza. Cattura quell’energia libera e schietta, che altri in seguito solo avrebbero imitato o cristallizzato in uno “stile”. Comunque sia, bellamente tanti ne raccoglieranno l’eredità, dai Black Flag agli X.

Quanto ai contemporanei Crime e Nuns, sempre tra i primi punk della Bay Area, non hanno la stessa (meravigliosa) rabbia infantile. Non possono dirsi maledetti, o benedetti, allo stesso modo. Sono più compromessi con l’adultità. Non è un difetto, «ma alla fine non c’è più spazio per diventare più grandi». Come dice Alice a se stessa.

Sia chiaro che gli Avengers dal vivo erano incendiari. Le loro performance infiammavano i luoghi di culto, il CBGB’s e il Max’s Kansas City. Ce lo testimonia la traccia live, guarda caso intitolata emblematicamente “Fuck You”.

Musica! I riff scorrazzanti di Greg Ingraham sovraccaricano e iper-velocizzano Chuck Berry e pure Johnny Thunders. La sezione ritmica sporca e trascinante è affidata alla batteria “slamming” di Danny Furious e al basso selvaggio di Jimmy Wisley. Le liriche e il canto di Houston sono “braggadocio”, cioè spacconeria femminile, già, ma anche dolcezza nascosta. Lei ha sempre, per così dire, un pugnale in una mano e nell’altra un bastoncino di zucchero.

Sono così impareggiabili “We Are The One”, “I Believe In Me”, “The American In Me”, “Open You Eyes!

“Non siamo Gesù (Cristo)/ Non siamo (porci) fascisti/ Non siamo (industriali) capitalisti/ Non siamo (neanche) comunisti/ Siamo i soli, noi siamo gli unici.”

“Io non sono l’agnello/ io non sono Gesù/ Non sono pronta a sacrificare la mia innocenza/ Non sono pronta per discutere di politica/ Non son disposta ad assaggiare la tua corruzione/… / Non voglio i tuoi soldi/ O il tuo contratto discografico/ Tu vuoi solo usare la mia giovinezza/ E la mia innocenza/… / Non mi userai mai/ Non sarò la tua martire”.

“L’americano che è in me mi fa dire che morire in guerra è un onore/ Ma è solo la menzogna dei politici/…/ L’americano che è in me non si domanda neanche più/ Perché Kennedy sia stato ucciso dall’FBI”.

“Ti hanno drogato col sedativo della musica e della televisione/ Sei uno della generazione vuota (blank generation)/ Apri gli occhi. Apri gli occhi/ Non vedi cosa sta succedendo./ Apri gli occhi. Apri gli occhi/ Guardi la TV per capire cos’è giusto e cos’è sbagliato/ Apri gli occhi su ciò davanti a cui ti sei inchinato/ Apri gli occhi e potrai rifiutarlo/ Voglio che ti arrabbi, voglio farti pensare/ Ma tu mandi giù tutta quella merda…”.

Cara Penelope, ci fossi stato io al Winterland Arena, il 14 gennaio 1978, all’ultima data del tour americano dei Sex Pistols, il gobbing a te, non mi sarei permesso di farlo. Ai Pistols non l’avrei risparmiato, nel significato più tipico del gesto.

Penelope Houston, dopo lo scioglimento della sua band nel 1979, farà qualche apparizione con gli Screamers, collaborerà con Howard Devoto, per poi –a sorpresa- aderire artisticamente al folk. Cavandosela davvero bene da “Birdboys” del 1987 a “Eighteen Stories Down” del 2003, tra folk contemporaneo e adult alternative pop/rock.

Con “Alice Underground”, chiosiamo così: «Far finta di essere due persone! E già, di me ne è rimasto appena a sufficienza per fare una sola persona rispettabile!». Rispettabile nel linguaggio di Alice vuol dire grandiosa. Sarebbe a dire che Penelope è grandiosa.

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