Perfetta incarnazione dei beautiful losers omaggiati da Bob Seger in un suo vecchio album, i Barracudas, sorta di multinazionale rock di stanza a Londra, sono stati uno dei cardini del movimento neo-sixties di inizio anni Ottanta, ma a differenza di molti dei loro coevi colleghi (Fleshtones, Fuzztones, Rain Parade ...) non ebbero mai riconoscimenti adeguati al loro talento, ma solo la relativa soddisfazione di un seguito di nicchia, in Paesi peraltro periferici come Francia, Spagna e, parzialmente, Italia. Tuttavia, per i pochissimi che li hanno conosciuti ed apprezzati, i Barracudas costituiscono immancabilmente un vero e proprio oggetto di culto.

Culto fondato in gran parte su questo bellissimo, secondo album, intermedio tra l'esordio «Drop Out With The Barracudas» ed il conclusivo «Endeavour To Persevere».

Che non fossero destinati a successi planetari, i Barracudas, lo si intuisce sin dai primi passi, quando tentano follemente di resuscitare il genere surf in terra di Inghilterra (in Inghilterra!) tra la fine degli anni Settanta ed i primi anni Ottanta, realizzando peraltro brani di notevole impatto quali «Summer Fun», «Surfers Are Back», «I Can't Pretend» e la splendida «(I Wish It Could Be) 1965 Again», tutti compresi nel loro disco di esordio, che purtroppo, a dispetto di un buon livello qualitativo, vanta riscontri commerciali assolutamente risibili.

Immersi nelle grigie atmosfere della new wave e del post punk e decisi a non adeguarvisi passivamente, i Barracudas tengono duro e non ammainano la loro bandiera; al contrario, si avviano per la strada di una naturale evoluzione che li conduce ad ampliare il proprio spettro musicale - contaminando la freschezza surf con dosi massicce di psichedelia, beat, garage e pop - e che li porta ad essere, novelli Flaming Groovies, tra gli epigoni più credibili della rinascita sixties e più in generale del guitar sound anni Ottanta. Peraltro, non è davvero casuale che la maturazione stilistica si accompagni ad un cambio di formazione che porta in organico il chitarrista Chris Wilson, già membro dei succitati Flaming Groovies e che una manciata di anni prima firmava a quattro mani con Cyril Jordan uno dei massimi inni del movimento, quella «Shake Some Action» che tutti dovrebbero conoscere o almeno ascoltare una volta nella propria vita.

Il risultato che ne scaturisce è, per l'appunto, «Mean Time», a mio modesto avviso uno dei vertici assoluti del neo-sixties, e tout court uno degli album più belli degli anni Ottanta.

Uno di quei rari casi in cui ognuno dei brani in scaletta (dodici in tutto, nell'originale versione in vinile) meriterebbe un commento a sé stante: a partire dall'emozionante ripresa di «Ain't No Miracle Worker», che converte in beat incalzante l'originaria acidità e non fa assolutamente rimpiangere i Brogues; passando attraverso «Grammar Of Misery», «Shades Of Today» e «Ballad Of A Liar», purissimo distillato pop che ubriacherebbe persino i più ortodossi ed incalliti fanatici del genere; per poi addentrarsi in «Bad News», «Be My Friend Again», «You've Come A Long Way» e «When I'm Gone», nient'altro che bellissime canzoni folk calate in un'atmosfera lievemente psichedelica, come le suonerebbe un gruppo garage; fino a chiudere con le rockeggianti «Dead Skin», «Eleventh Hour» e la tribale «Hear Me Calling».

C'è di tutto in «Mean Time», a confermare lo spirito poliedrico e lo zenit raggiunto dal gruppo, ma questo non va certo a discapito della omogeneità e della solidità del risultato.

Cosa che, purtroppo, accade invece nell'album di commiato «Endeavour To Persevere» (titolo di una bellezza che commuove), fratellino minore e somigliante assai a «Mean Time», cui difetta però una precisa messa a fuoco ed un grano di ispirazione in più, pur non mancando episodi di assoluto valore («Dealing With Today», «Way We've Changed», «She Knows» e «Pieces Broken» sopra tutti): insomma, un altro album degnissimo, che non risalta a dovere solo perché condannato ad un perenne confronto con il suo inarrivabile, inimitabile predecessore.

Come già avrete capito, care DeBaseriane e cari DeBaseriani che vi siete avventurati fin qui, né «Mean Time» né tanto meno «Endeavour To Persevere» sono baciati dal successo commerciale, e non c'è neppure un Bertoncelli a perorarne la causa (gli unici a sostenerli furono all'epoca, e sono ancora oggi quando se ne presenta l'occasione, Federico Guglielmi ed Eddy Cilìa sulle pagine dell'allora glorioso «Mucchio Selvaggio» ed a loro va il mio ringraziamento, per avermi fatto conoscere un gruppo straordinario).

E così, qui finisce la storia dei Barracudas e cominciano le avventure parallele dei membri del gruppo. Assolutamente degne di nota quelle dei Fortunate Sons del chitarrista Robin Wills ed il progetto «I Knew Buffalo Bill» cui si dedica il cantante Jeremy Gluck, in compagnia di Nikki Sudden e Jeffrey Lee Pierce.

A proposito di beautiful losers ...

 

P.S. La mia gioia - ed è in fondo la speranza che mi ha spinto a scrivere questa recensione - sarebbe ancora più sentita se qualcuno, leggendo queste righe (tante, ma sempre troppo poche per un gruppo del genere) fosse invogliato ad acquistare un disco dei Barracudas; magari proprio «Mean Time», il disco ideale per rendersi conto di cosa si sia perso negli ultimi trent'anni.

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