Il "kiwi rock" è una forma di espressione musicale caratteristica della Nuova Zelanda, costituita (nella sua incarnazione più conosciuta) da un compromesso fra gli insegnamenti di due colossi degli anni 60: Byrds e Velvet Underground. Dei primi, viene ripreso il tipico arpeggio squillante di chitarra folk-rock, nonché le melodie trasognate; dei secondi, il piglio amatoriale e il suono trascurato, nonché lo "sferragliare" à la Lou Reed. Il risultato è un pop a bassa fedeltà dal sapore naif, che non trascura un tocco inglese (Fab 4, Hollies, Kinks). Il genere prese piede in maniera consistente negli anni 80 e costituì per lungo tempo la forma di alt-rock per eccellenza di questo Paese. I Bats ne furono tra i massimi esponenti. Questo dicono, in sostanza, le varie enciclopedie.
Stando a questi presupposti, cosa dobbiamo aspettarci da questa band? Una proposta derivativa di modelli consolidati, visti come irraggiungibili per qualità compositiva ed intensità esecutiva? Un disimpegnato esercizio di sano artigianato pop? Una revisione ironica di linguaggi oramai entrati nel DNA musicale di più generazioni? Un omaggio ad un'epoca perduta? Un'operazione citazionista o un sovvertimento di canoni, secondo l'estetica post-moderna?
Niente di tutto questo. "Compiletely Bats", pubblicazione che raccoglie i primi 3 EP della band, registrati fra il 1984 e 1986, è la nostalgica e impacciata evocazione non tanto di un passato musicale, quanto della sua immagine. Un'immagine sbiadita, sfocata. Gli anni 60, per i Bats, sono l'età dell'innocenza, l'Eden da riconquistare (almeno nei sogni). Naif, si diceva. Difficilmente si trovano band al quale questo aggettivo si addica meglio che ai Bats. Un senso di candore, quando non di pallore, si rinviene dai brani contenuti in questo disco. Una sensazione di debolezza, appannamento, opacità. Le canzoni dei Bats sono come le diapositive di vecchi battesimi o matrimoni o picnic o vacanze. Sono come i ricordi più dolci di quando eravamo bambini. Non c'è traccia né di LSD, la droga talora ispiratrice dei Byrds, né di eroina, la droga spesso ispiratrice dei Velvet Underground. Solo latte e miele. Melanconia così flebile da non riuscire nemmeno ad inumidire gli occhi. Niente sesso, solo tenere effusioni da liceali alle prime armi.
I grandi artisti pop hanno due pregi: scrivono grandi melodie e le arrangiano in maniera geniale (esempio: i They Might Be Giants, dimostrazione tra l'altro che non tutto l'alt-pop è lo-fi). I Bats, in questo primo ma fondamentale scorcio di carriera, non erano né grandi melodisti né grandi arrangiatori. La loro "forza" stava tutta in quella capacità di vivere, nei cupi e violenti anni 80, in un disperato "daydream" per mezzo del quale immergersi in un'epoca che non è mai esistita. Non si tratta di ritardo culturale, ma di fottere il presente e ignorarne la bruttezza.
I brani da ricordare sono: "Mad On You", indolente, ma accattivante straight-rock, come sapeva fare Lou Reed quando era in vena; "Trouble In This Town", basso borbottante, ritornello sognante cantato in coro, sguardo verso il cielo, proprio come nei Byrds. I più caratteristici, ossia quelli che definiscono il Bats touch, sono "Neighbours" e "I Go Wild", che ricordano un po' l'anti-rock anemico dei bostoniani Galaxie 500, un po' il proto-shoegaze degli scozzesi Pastels: se nella prima il languore è accentuato da un maldestro violino, nella seconda si palesano tutti i limiti espressivi del falsetto di Robert Scott, ma d'altra parte, come già ribadito in precedenza, questa "debolezza" è la vera arma segreta dei Bats.
"Made Up In Blue" e soprattutto "Chicken Bird Run", con la loro epica dell'umiltà, saldano invece il conto coi cugini canguri, suonando come dei Radio Birdman annacquati e allineandosi agli umori delle tante meteore che arricchivano la fondamentale compilation "Tales Of Australian Underground"; la prima sfoggia anche un paio di garbatissimi assoli di chitarra e basso che valgono l'ascolto. "Jewellers' Heart" e "Man On The Moon" ripiegano sulla ninna nanna, sciorinando aggraziate cantilene in odore di Everly Brothers, che fanno lo stesso effetto di un bambino di prima elementare che recita una filastrocca, rese ancora più tenere e disarmanti da cuciture di clavicembalo e precarie armonie vocali.
"Earwig", uno dei loro primi brani, vale come un gelato preso con la morosa in riva al fiume una torrida sera d'estate. "Claudine", ennesima serenata, fa di tutto per evitare la melodia trascinante: è un po' come una ragazza gentile, educata, sorridente, che però non si lascia mai andare e raramente esterna i suoi sentimenti. Ci si sta bene assieme, ma non si va troppo oltre. La sincerità, la bontà d'animo suggerita da questa musica, quel profilo basso, quella mancanza di pretese farebbe includere, idealmente, i Bats nella puritana famiglia country, più che in quella viziosa del rock. Per fortuna, solo idealmente. Perché quanto i Bats decidono di adottare cadenze, stilemi e retorica del country, come in "Blindfold", "By Night" o "United airways" falliscono miseramente.
La malinconia endemica ed innocua, dolce per quasi tutta la raccolta, si tinge per un attimo di amarezza in "Offside", brano interamente acustico, il più introverso e il più "americano" della serie. Ma questo non intacca più di tanto il tono del disco. La carriera dei Bats proseguirà con opere più professionali, smarrendo in parte quel sentimento naif che aveva reso fascinose le loro prime uscite. Diventeranno, con altre band kiwi, in qualche misura influenti sul lo-fi pop "ufficiale", quello statunitense: ma se anticipare il futuro può essere un motivo di merito, reinventare il passato, come hanno fatto i Bats, è forse ancora più significativo.
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