E' l'album che decreta, un po' mestamente, la fine del Sogno Americano. Il momento è delicato: la morte di Kennedy, l'ascesa politica di Martin Luther King, la guerra in Vietnam iniziata da poco e già terribilmente macchiata da uccisioni e sciempiaggini bellicose, la Germania offesa e divisa in due, l'aria insistente di una imminente contestazione giovanile europea, la rivoluzione comunista di Fidel Castro e Che Guevara. Nonostante una certa diffidenza politica (e un rancoroso odio verso le minoranze sociali) i Beach Boys non possono, anche volendo, restare indifferenti davanti ad avvenimenti oltre che storici fondamentali sia per la democrazia intesa come forma di respiro sociale sia come nuova clamorosa opportunità di rinascita globale. Ecco, dunque, la svolta. Dopo il grande successo ottenuto da "Surfin' Usa", e dopo il mezzo passo falso di "Surfin Girl", i Beach Boys danno alle stampe un album curiosamente country (con venature tipicamente beat) e ridefiniscono, a modo loro, i confini del pop e del beat.
"All Summer Long" è l'album che segna la fine del tormentone 'macchine, donne, amici' (nonostante la solita ballatona beat, "I Get Around") e decreta l'inizio della stagione del ripensamento e della malinconia. I Beach Boys cambiano rotta e strizzano l'occhiolino alle orecchiabilità dei Beatles, ma non riescono, salvo rarissimi casi, nè ad essere convincenti né a colpire un benché minimo bersaglio. La nostalgia è evidente nella (quasi) dolente "All Summer Long", la malinconia si percepisce chiaramente nella splendida "Wendy", mentre in "Little Honda" i coretti e i piccoli vezzi autoriali la fanno, purtroppo, da padroni.
La Capitol (che produce i Beach Boys sin dagli esordi) capisce che qualcosa non sta funzionando per il verso giusto e impone, a Brian Wilson in primis, di cambiare completamente registro musicale. Il risultato è "The Beach Boys, Today!" (1965), un album interessante, sicuramente migliore rispetto a questo "All Summer Long", eppure, nonostante le grandi risorse messe in campo dalla Capitol, non del tutto convincente.
La fama dei Beach Boys, già nel 1964 (anno di pubblicazione di "All Summer Long") andava scemando. La colpa però, se vogliamo essere corretti, non va imputata completamente ai fratelli Wilson (che pure hanno faticato moltissimo per potersi completamente rinnovare), la colpa va data al Paese America (mi rendo conto che è un discorso complesso): supponiamo, se Kennedy non fosse morto, se la guerra in Vietnam non ci fosse stata, se il Muro di Berlino non fosse stato costruito, quanto avrebbero ancora incassato, in termini commerciali, i Beach Boys? Probabilmente moltissimo, e, voglio osare, non sarebbero praticamente finiti (in senso artistico) su per giù intorno al 1966 (anno di "Pet Sounds", album sopravvalutatissimo).
Già in "All Summer Long" si possono intravedere alcuni brevissimi, ma non risibili, accenni di difficoltà o, peggio ancora, di insicurezza musicale: "Do You Remember" (ma vale anche per "Drive-In") appaiono, fin dal primo ascolto, frammentarie e disunite, frutto di una sconsiderata sperimentazione musicale che Brian Wilson impose, a mò di patriarca, ai fratelli Carl e Dennis. Evidente dunque, l'intento di Brian: sovvertire le regole del gioco, cominciare a sperimentare e, se possibile, lasciarsi alle spalle l'infanzia felice e la gioia di vivere e virare, con passo forte e deciso, verso nuove prospettive (dunque nuovi orizzonti) per poter far breccia nel cuore di più generazioni (il mercato formato solo da teenager non consente una sostanziale tranquillità commerciale).
Assolutamente geniale (e indubbiamente kitsch) la raffinatissima copertina: una serie di fotografie (raffiguranti i Beach Boys o, in alcuni casi, coppie felicemente abbracciate sdraiate su una spiaggia in riva al mare) che compongono, in maniera molto artistica, una sorta di quadretto generazionale che oggi, pare vecchio e sorpassato ma che un tempo, invece, appariva colorato e divertente.
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