Sinceramente non pensavo che mi sarei mai trovata sul serio a recensire
un cd di Quelli che io considero tra i Mostri Sacri Secolari della
musica che amo e della musica tutta in generale: una sorta di timore
reverenziale mi bloccava nell’ardire.
MA.. l’operazione Mc Cartney
del 2003 mi ha dato lo spunto giusto per osare tanto.
Così dopo ben 33 anni dall’uscita dell’originale album omonimo
datato maggio 1970 (!) – nonché periodo di massima crisi della
Band intenta a sciogliersi un mese dopo la suddetta pubblicazione -
esce sul nostro attuale mercato uno degli ultimi lavori ufficiali dei
Beatles, a detta del suddetto bassista e vocalist del gruppo,
“denudato” dalle contaminazioni non volute all’epoca dalla Band ed
imputabili al produttore di allora: Phil Spector.
Insomma, dopo 33 anni Mc Cartney sente il bisogno di proporre ed
offrire al grande pubblico - che dagli stessi 33 anni ama l’album
così come è arrivato alle classifiche, ai negozi, alle
radio, alle case ed alle generazioni future- la versione reale ed
originale dell’album così come l’avevano pensata e l’avrebbero
voluta i Beatles e non stravolta dalle manie e bizzarrie di alcuno.
Pregevole intento.
L’album allora si collocava artisticamente all’apice della carriera del gruppo ma portava già i segni del declino dello stesso che non trovava più la giusta coesione dei tempi precedenti, tempi d’oro; scaramucce tra i singoli componenti, il ruolo fastidioso di scomode mogli invadenti, le divergenze di opinione e l’aprirsi a gusti musicali diversi, tutto ciò va minando l’armonia del gruppo che aveva da poco ultimato l’ottimo White Album. Let it be, o meglio, Get back – questo era inizialmente il titolo scelto – è ricco di spunti, tante sono le idee e la creatività dei singoli ormai sempre più verso strade diverse.. si colloca tra questo e “Abbey Road” ma esce in sordina, quasi in punta di piedi e soprattutto senza la piena approvazione dei Fab Four: Spector per dirla alla buona, ci mette del suo, e questo al gruppo, per i sopraccitati motivi, privo di energie per contrastarlo, non piacque.
Quindi recuperati i nastri originali Let it be viene oggi pubblicato
con le seguenti differenze:
innanzitutto via i violini e l’orchestrazione corale e dolcissima di
“The long & winding road” in nome di una versione minimalista e
comunque sublime, piano, voce, chitarra; quindi si cambiano 33 anni di
assolo di Harrison della title track, si tolgono brani minori e
cortissimi come “Dig it” e “Maggie Mae” e si aggiunge al loro posto una
famosa b-side “Don’t let me down” , via orchestra e cori in “Across the
universe”, via le voci e i mini dialoghi di sottofondo caratterizzanti
il fatto che si stesse girando contestualmente anche il “Let it
be-movie” , che altro?
Si aggiunge un secondo cd della durata di 25minuti forse, in cui si
ascoltano dialoghi ameni e accordi o accenni di canzoni lunghi al
massimo 20secondi e registrati con il peggio 4piste che la storia dei
Beatles ricordi, ed ecco qua la
chicca a prezzo medio alto per i collezionisti.
Ma questi, insieme agli estimatori e veri amanti del gruppo resteranno
con l’amaro in bocca. Perché più che all’amore per la
musica nella sua essenza più pura Mc Cartney ha pensato ad una vera e propria
operazione commerciale e di marketing; il tentativo di attingere
ancora da una risorsa preziosissima ma antica sfruttando le
potenzialità di quelli che vanno sì considerati
capolavori a tutti gli effetti è ben noto a tutti credo (penso
alla cara mamma del tanto compianto Jeff Buckley per esempio), ma
questi sono capolavori anche e soprattutto in relazione al tempo che li
ha prodotti e a cui appartengono, che è il passato. È come se
uno scrittore ripubblicasse dopo 33 anni un vecchio libro cambiando le
virgole o gli accenti, non avrebbe senso.
Queste riesumazioni post mortem mi lasciano una sensazione di freddezza e speculazione,
niente altro.
Prendo il cd e lo metto con cura nella sua custodia poi prendo
l’originale e lo mando a palla.
Allora tornano i brividi ed anche il calore.
Let it be resta un capolavoro, ma nella sua versione originale,
sofferta e vestita.
Non sempre è vero che “Ogni scarrafon’ è bello a mamma sua”.
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