“Che vergogna finire con un album come “Let It Be”. Poi i ragazzi mi chiamarono e mi dissero che volevano farne uno più bello. Così nacque “Abbey Road””.
Queste sono le parole di George Martin. Fa un po’ sorridere che un uomo così equilibrato, abbia potuto pronunciare un parere così drastico. “Let It Be” ha certamente il terribile peccato di essere prodotto malissimo, ma di certo non è una “vergogna”. Due cose si percepiscono al primo ascolto:
1) Dal punto di vista musicale, è superiore a “Rubber Soul”;
2) Il suo “songwriting” è superiore a quello di “Abbey Road” - che è certamente una pietra miliare nella storia della produzione discografica, ma è anche un album meno ispirato, e, in alcuni momenti, molto modesto quanto a canzoni.
Ciò che è più triste è che ho letto più pagine che parlavano male di “Maxwell’ s Silver Hammer” (presente in “Abbey Road”) di quelle che parlavano bene di “Two of Us” o “Dig a Pony”.
All’epoca, circa 15 anni fa, rimasi allibito dalle stroncature – alcune davvero ridicole, come quelle che misero “Let It Be” allo stesso livello di “Beatles for Sale”. Quando poi vidi “Please, Please Me” tra i primi 500 album di sempre, cominciai a domandarmi “dove avevano le orecchie questi” - come disse Page dopo le sciocchezze scritte su “Led Zeppelin III”.
Poi, con l’età, si capisce che ragionare con la propria testa è cosa meno naturale di quel che si pensa, e mi resi conto che un parere come quello di un pezzo grosso come George Martin, o degli stessi Beatles, influenzò certamente i mediocri critici che oggi scrivono nelle riviste specialistiche, e che erano fan adolescenti dei Beatles negli anni 60.
Fortunatamente, Mark Heertsgaard, nel suo “A Day in the Life”, distrugge questo “luogo comune critico” contro “Let It Be”: “Questo disco non ha certo la forza di “Revolver” o di “Pepper”, ma non si può assolutamente far passare come album minore”.
Ovviamente, se si ascoltano certe voci di sottofondo o certe introduzioni vocali idiote a canzoni serissime come “Two of Us” o “Let It Be”, le risate represse di McCartney in “I’ve Got a Feeling”, certi giochetti incomprensibili come “Dig It” o “Maggie Mae”, una canzonetta come “1 After 909”, che era quasi pronta nel 1963 per essere messa in “Please Please Me” – è chiaro che qualche superficiale può pensare che questo disco sia più uno scherzo che una proposta musicale. Certe cose i Beatles potevano risparmiarsele davvero. Sono scherzi che non fanno ridere.
È invece davvero impressionante la serie di gioielli presenti qui, e notevole la ricchezza dei testi, soprattutto di Paul. Alcune delle cose scritte da McCartney in questo disco meritano davvero l’applauso. Come diceva John: “Quando voleva scrivere un bel testo, lo faceva benissimo”. Paul scrisse queste canzoni dopo la fine delle sessions del “White”, quando nei suoi “times of troubles” aveva capito che dopo la fine del matrimonio di John con Cynthia, anche il suo matrimonio con i Beatles stava per finire. Molti testi riflettono questa amara consapevolezza.Ora passo a un mezzo track-by-track, perché queste canzoni se lo meritano, visto quanto sono belle e sottovalutate. Se non vi interessa passate avanti e leggete la conclusione.
“I Me Mine” è una canzone di Harrison sull’eccesso di ego. Purtroppo, il testo non è eccezionale, ma alcuni versi rimangono eccellenti. L’idea è davvero bella.
“Across the Universe”, secondo John, così com’era, era “ un brano scarso a causa della mancanza di lavoro”. Non ho mai capito cosa volesse dire. Si tratta di uno dei suoi massimi capolavori, per come la musica (splendida) si unisce al testo (eccellente dal punto di vista metrico). Strano che questo pezzo fu disprezzato e qualificato come noioso da Ian MacDonald. Il testo non mi piace quanto a contenuto, perché parla delle esperienze di Lennon con l’ LSD. Ne esistono due versioni, una più pesante, direi “mandolinata” nel disco (opera di Phil Spector) e una più sobria, più folk-malinconica, e per me più bella, nel “Past Masters II” (pubblicata circa un anno prima come singolo).
“Dig a Pony” è un’ottima canzone, un pezzo alla chitarra molto fantasioso e ben ritmato. Il testo è sciocco. Con tutto quello che John poteva dire all’epoca (la stampa che lo odiava per via di Yoko Ono, la sua tossicodipendenza (eroina in vena), l’arresto per droga, la fine della sua amicizia con Paul, la sua voglia di lasciare il gruppo e cambiare vita) sprecò una canzone così per scrivere sciocchezze. In ogni caso, se è vero che, nel contenuto, si tratta di un testo insulso, dal punto di vista tecnico è davvero studiatissimo. Un testo a notevole (benché nonsense), calato benissimo nella musica. Una canzone di cui essere orgogliosi: se non un capolavoro, di sicuro un capolavoro minore. Davvero notevole il miglioramento di John come chitarrista (qui con la sua chitarra bianca, divenuta celebre grazie al concerto sul tetto della Apple Records); sarebbe potuto diventare un ottimo chitarrista – se non avesse lasciato vincere la sua pigrizia.
“I’ ve Got a Feeling” rappresenta uno dei massimi capolavori melodici dei Beatles, con un bel lavoro di alla chitarra. Pur essendo una canzone d’amore, “I’ ve Got a Feeling” è assolutamente matura: è Paul che dice che finalmente ha trovato la donna giusta. È la “A Day in the Life” minore del gruppo, per via dell’inciso di John nel testo di Paul (“Everybody had a hard year….”) – inciso che entra benissimo nella canzone, ma non perfettamente nel testo. Non ci voleva molto a migliorarlo. Non ci fu davvero la voglia di lavorare (da parte di John) per portarla alla perfezione.
Anche “The Long and Winding Road” non l’ho mai vista come una canzone d’amore. Se le interpretazioni personali sono ammesse, nella mia “interpretazione col senno di poi” la vedo come un atto di rassegnazione di Paul verso l’amico che ormai completamente perso dietro Yoko: “La strada lunga e tortuosa percorsa da noi due, non scomparirà mai. Non saprai mai le volte che ho pianto, e che tentato (di salvare la nostra amicizia)”. Sia come sia, la metto tra i capolavori del gruppo, nonostante l’arrangiamento troppo “da colonna sonora hollywoodiana” di Spector. La stupenda versione originale con Billy Preston all’organo (che si trova nel film omonimo) lascia incantati per la sua grazia e sobrietà; capisco benissimo l’ira di Paul per quello che fece Spector.
“Two of Us” è un ricordo di Paul verso l’amico fraterno John e, come dice Antonio Taormina, “la strada di casa rappresenta inevitabilmente il lungo viaggio percorso dai due Beatles”. Davvero un bellissimo folk, e uno dei migliori testi di Paul. Il “Goodbye” finale lascia una piccolo spazio alla speranza che John tornasse in sé.
In “Get Back” (uno dei capolavori musicali di McCartney), Paul non si abbandona ai ricordi ma scrive quasi una supplica (molto ben mascherata da un testo apparentemente insulso) perché il suo amico fraterno ritorni in se stesso “Get back Jo”, e perché Yoko Ono (qui chiamata “Sweet Loretta Martin”) se ne vada via (“Get back to where you once belonged”). Guardate la versione del concerto sul tetto, con un bravissimo Lennon alla chitarra e un virtuoso McCartney al basso.
Ed eccoci a “Let It Be” - la canzone dei Beatles che mi dà maggiore emozione in assoluto, e certamente il mio preferito fra i testi di Paul. Lennon accusò questa canzone di cattolicesimo bigotto, un’accusa assurda: in “Let It Be” non si parla della Madonna o degli angeli; in “Let It Be” si parla di speranza, e in modo assolutamente sincero e toccante. Davvero pessima la posizione. Assurdo relegare una canzone così in mezzo al disco - soprattutto pensando al fatto che i Beatles avevano messo intelligentemente “Tomorrow Never Knows” alla fine di “Revolver” e “A Day in the Life” alla fine di “Sgt. Pepper”. Di “Let It Be” esistono quattro versioni: una sul disco (con l’eccessiva chitarra distorta di Spector); una pubblicata come singolo (con meno distorsione nella chitarra, e con un finale fatto di organo e cori); e la versione “naked” (con la voce di Paul più in evidenza); e quella del film, con il suono della chitarra ancora più cristallino. Questione di gusti decidere la più bella. Quando ai Beatles vennero mandati, per posta, gli acetati del disco, rimasero tutti in silenzio per la pessima produzione. Lennon ebbe però la (perversa) idea di pubblicarlo così: “Volevamo farlo uscire in quelle condizioni pietose, per distruggere il mito dei Beatles. Io volevo mostrarmi con i pantaloni calati; così avrebbero dato un taglio alla venerazione creata da “Pepper””. Poi John seguì i miti consigli degli altri e il disco venne abbandonato in uno scantinato. Lo stratosferico successo commerciale di “Abbey Road”, risvegliò Lennon, che andò a riprenderlo e lo diede a Spector. Il resto della storia si trova in ogni libro sui Beatles.
Al di là delle sciocchezze scritte dai critici, “Let It Be” è davvero un album eccellente: 7 pezzi sono tra i massimi mai composti dai Beatles. Non ho davvero idea di quello che poteva essere se si fosse messo mano alle canzoni durante le registrazioni di “Abbey Road”. Cosa poteva essere con un registratore a 16 piste?
Ciò che riempie di rimpianto, è il fatto che quando un dirigente della EMI, vedendo la pochezza delle canzoni del Medley, disse ai Beatles di fare un best tra le migliori di “Abbey Road” e le migliori di “Let It Be”, Lennon si infuriò dicendo che di “Let It Be” non voleva nemmeno sentire parlare.
A causa della chiusura di John, oggi ci troviamo con due (grandi) album che lasciano a desiderare (uno per lo spessore di certe canzoni; l’altro per la produzione) invece di un unico maestoso Capolavoro.
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