Paradossalmente è proprio la sintesi, insieme ad un'acutissima ironia, l'idea fondante di questa grande opera rock.
Analizzandolo con attenzione, ci si rende conto come in realtà i Fab Four avrebbero potuto trarne almeno un triplo, se avessero portato a termine alcune idee rintracciabili nel doppio pubblicato. Ma la loro arte consisteva soprattutto in questo: eliminare il superfluo, evitare il barocchismo, arrivare all'essenziale, all'immediatezza. Senza essere superficiali.
L'album cita generi, stili, atmosfere e toni completamente diversi. Certo, è un lavoro dall'impatto notevole, disordinato, dadaista, direi addirittura felliniano.
E' una "bella confusione" che spiazza l'ascoltatore: hot jazz ("Honey Pie"), hard rock puro ("Helter Skelter", "Back in the Ussr"), collage riuscitissimi come "Happines is a Warm Gun", tre canzoni in una completamente differenti eppure armoniose, a loro modo coerenti con lo spirito complessivo del disco.
Struggente e dolorosa "While My Guitar Gently Wheeps", progressione discendente con Clapton alla chitarra solista e punta di diamante della produzione di Harrison che regala anche la riflessiva "Long Long Long" e la satirica "Piggies".
Convince il Mc Cartney che si diverte con gli arrangiamenti giocosi di "Martha My Dear", così come non lascia indifferenti la corrosiva "Sexy Sadie", magistrale presa in giro del Maharishi. Memorabili "Back in the Ussr" che cita i Beach Boys ed "O-Bla-Dì O-Bla-Da", volutamente vacua.
C'è spazio anche per il Lennon tardo-psichedelico ("Dear Prudence", "Cry Baby Cry"), per la poco considerata ma sorprendente "Savoy Truffle" e i suoi sassofoni "compressi", per ballate romantiche e bucoliche ("Julia", dall'arpeggio incantevole, per dolcezza pari all'ispiratissima "Blackbird", "Mother Nature's Son" e "I Will").
E non dimentichiamo l'indolenza drogata di "I'm So Tired", la mayalliana "Yer Blues" e la lasciva, elementare "Why Don't We Do It in The Road". Più dure "Me and My Monkey" e la festosa "Birthday".
Certo, si percepisce l'aria di disfacimento e separazione imminente, ma il prodotto non ne risente. Ed anche gli episodi minori ("Bungalow Bill" con l'insopportabile Yoko Ono, il proto-muzak di "Wild Honey Pie", l'ingenua "Don't Pass Me By" di Ringo Starr, l'autoreferenziale "Glass Onion", il country triste di "Rocky Raccoon" e la pseudo-avanguardia di "Revolution n.9") hanno una loro funzione.
Raramente un disco rock è riuscito a compendiare i caratteri propri dell' "opera aperta", modello interpretativo all'epoca molto utilizzato e particolarmente adatto al "White Album".
Si coglie soprattutto la fine non solo cronologica degli anni '60, il paesaggio è desolato, sconfortante, la realtà è inafferrabile ed ambigua: quella dell'amore universale è stata una bella e colorata illusione, ma sono in arrivo i Settanta. Un decennio difficile, violento, traumatico che i Beatles annunciano, in qualche modo. Anzi, a loro modo.
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