Un disco doppio, tra l'altro, apparentemente e forse anche materialmente molto confuso, concepito all'inizio del declino, sotto il profilo psico-finanziario, del gruppo, grazie anche agli anatemi della perfida Yoko Ono e i disastri della Apple "a company making everything", richiamati a grande voce dall'uomo delle tasse.
Il genio invece, grazie a Dio, era sempre ligio al suo dovere, impartendo ai Beatles le direttive per la creazione di pezzi assolutamente straordinari. Veggasi "While my guitar gently weeps", uno dei più bei pezzi rock mai scritti, plasmato da una chitarra elettrica scritta da Harrison per l'amico Eric Clapton che la suona in maniera magistrale. Sembra davvero che la chitarra stia piangendo mediante un lamento metallico e disperato che si evidenzia specialmente nell'assolo finale, dove oltre alla dolorosa evocazione di Harrison che accompagna le note, qualche ascoltatore più attento può scorgere addirittura un ben interpretato singhiozzo durante la dissolvenza. La dolcissima "Mother Nature's son", l'esplosiva "Back in the USSR", la toccante "Blackbird", la tenera "I will" appartengono ai picchi alti dell'album. Tecniche sonore all'epoca sconosciute si mescolano con la fluidità delle musiche anche quando si rendono grevi. Veggasi "Helter skelter", che oltre ad essere il primo pezzo heavy metal della storia del rock, ha anticipato il genere hard rock, ripreso e sviluppato di lì a poco dai Led Zeppelin. "Yer blues", altro brano dal timbro greve, caratterizzato da riff sporchi ma non troppo e da essenziali giri di basso. Il testo, piuttosto lugubre, diventa ancora più scioccante per i posteri, in quanto Lennon urla di voler morire a tutti i costi, profezia dannatamente messa in atto dalla sorte poco più di un paio di lustri dopo. Inoltre, Lennon si cimenterà in pezzi che spaziano dall'ironico (The continuing story of Bungalow Bill, Everybody's got something to hide except me and my monkey, Cry baby cry) al provocatorio (Yer blues, appunto, I'm so tired, Revolution, Glass onion, Sexy Sadie), attraverso la bellissima ballata rock "Dear Prudence" con Paul alla batteria e la meravigliosa "Julia" dedicata alla madre.
Gli altri componenti seguiranno le sue stesse orme pianificando una scaletta adatta a toccare qualunque genere possibile, anche innovativo. Pezzi come "Why don't we do it in the road", magari all'epoca considerato inutile, inaugureranno filoni avanzati nel tempo con "I want you", stavolta molto notevole, "Check my machine" (McCartney II), insulsa. Chi ne trarrà tesoro mediante manipolazioni elettroniche sarà Moby, che saprà sapientemente orchestrarle rendendole anche commercialmente apprezzabili. Toccheranno la sfera politica con brani come "Piggies", e "Revolution", della quale preferisco il lato B del singolo diviso con l'intramontabile "Hey Jude", ben più sanguigna ed esplosiva rispetto a quella registrata sull'album che appare bolsa e dalla metrica incerta. Attraccheranno anche al molo del genere sperimentale con "Revolution 9", interessante miscela di fonemi e voci, di difficile et aut variopinta interpretazione (Franco Battiato se ne servirà nel corso degli anni settanta in pezzi come "Ethica fon Ethika" e "Nel cantiere di un'infanzia"). Malinconici ritratti radiofonici anni '20 con "Honey pie", semplici country con "Don't pass me by" e meravigliose narrazioni prenotturne come "Good night", caratterizzata da una tanto anomala quanto strabiliante interpretazione vocale di Ringo Starr.
Il "White album" è sicuramente un'opera grandiosa, di eccellente valore artistico, sicuramente confusionale, acida, ferrosa, oscurata da alcuni colpi bassi quasi fortunatamente occultati da altri brani di pregiata fattura. Tralasciando la vicenda di Charles Manson, altra ombra gettata sul disco dai mass media, l'unico album doppio dei Beatles conquista per l'ennesima volta la cima di una delle montagne più alte del mondo: la musica.
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