"Tre serpenti ed un amuleto" è il lavoro meno fortunato ed apprezzato dei nove sinora pubblicati da questa peraltro fantastica formazione, proveniente da Atlanta in Georgia e dedita, per chi non lo sapesse, ad un tardo ma creativo southern rock, ricolmo di tutti gli umori che hanno reso grande il genere: country, rhythm and blues, british blues, rock'n'roll, Beatles, Stones, Zeppelin, psichedelìa anni '60 e non so cos'altro.
La metà degli anni novanta si era rivelata assai turbolenta per i Corvi Neri, gruppo litigioso e lunatico. I due fratelli Robinson (il cantante molto hippy Chris e la granitica chitarra ritmica Rich) stavano a mettersi le mani addosso per qualunque cosa... non si riusciva poi a trovare una chitarra solista che soddisfacesse le aspettative, col risultato di entrare in studio, preparare un album per poi rinunciare a pubblicarlo, non contenti della sua resa. Difficile mantenere salda la barra e proseguire la carriera, in queste condizioni; i nodi verranno alfine al pettine... però più in là, passato il duemila, con lo scioglimento (per fortuna poi rientrato) del sodalizio. Per intanto la formazione riesce a pubblicare quest'opera sufficientemente variegata e intensa da meritare menzione d'onore, anche se certo non l'encomio solenne.
Incastonata, nella discografia della band, fra i ben differenti, ma entrambi riusciti lavori "Amorica" (anno 1994, sperimentale e avventuroso) e "By Your Side" (del 1999, vera colata lavica di hard rock blues rollingstoniano come gli Stones non sono mai stati e mai saranno capaci di suonare), questa quarta opera risalente al 1996 ha in serbo buone canzoni, diversificate e divertenti.
L'album parte con un paio di cose dal sapore molto rollingstoniano, migliore delle quali la seconda "Good Friday", piena di tensione grazie alla solenne armonica blues (soffiata e aspirata dal frontman Chris), tensione che poi si stempera nel successivo coro sguaiato alla Jagger.
La seguente "Nebakanezer" (chi? Un re di Babilonia, pare) è dura e spigolosa, colla tipica chitarra moderatamente distorta ma terribilmente cattiva di Rich Robinson, un suono ottenuto saturando le valvole finali dell'ampli e lasciando invece tranquille quelle d'ingresso... il tutto naturalmente e necessariamente picchiando come fabbri sulle corde.
"One Mirror Too Many" è invece moscia... a mio parere doveva essere risolta con un tempo molto più veloce. E' uno di quegli episodi un poco contemplativi e lisergici sui quali i Crowes (o meglio il loro cantante) indulgono volentieri. Questa indolenza da fumatori di canne, diciamo così, verrà spazzata via completamente nel disco successivo "By Your Side", vispo e adrenalinico, per poi ritornare nei lavori più recenti.
Il singolo "Blackberry" che segue è molto efficace: continui staccati e stop&go degli strumenti, buffi pizzichi di corda, pieni e vuoti sonori sui quali si adopera la penetrante, strascicata, inestimabile ugola blues di Robinson, uno dei migliori cantanti che gli Stati Uniti abbiano dato alla causa del rock.
"Girl From A Pawnshop" è la prima ballata, country e languida nelle strofe, blues ed accesa nei ritornelli, retrò da par suo e somigliante a mille altre musiche americane di quaranta/cinquanta anni fa. L'approccio e il trasporto più che sinceri la fanno apprezzare, ma molto meglio la successiva "Halfway to Anywhere", che possiede un giro armonico in calando molto Crowes, già sentito anche nel precedente lavoro "Amorica". I Corvi sono grandi in questi mid tempos sagomati e saturi di elettricità ed intensità.
Su "Bring On, Bring On" il vocalist fornisce la ricorrente prestazione "a'la Rod Stewart", anche migliore dell'originale, mentre "How Much For Your Wings?" si compiace di quella forma acustica altresì pesante inventata dai Led Zeppelin, rafforzando poi quest'ispirazione con l'uso di accordi stretti alla maniera orientale, caratteristica di diversi capolavori del Dirigibile.
L'album bianco dei Crowes tira poi avanti con un mid-tempo in levare intitolato "Let Me Share The Tide", ancora con un'ultima ballata semiacustica "Better When You're Not Alone" per poi concludersi con la scellerata "Evil Eye", un misto di risonanze sessantiane alla Byrds, cori cervellotici alla Zappa, una chitarra che pesta come un maglio e l'altra (il solista Marc Ford) fumosa e psichedelica che di più non si può.
Unici e brillanti nel mischiare e rimettere in circolo, a modo loro e con sublime libertà e musicalità, una buona serie di standard del rock, del blues, del country e del pop, i Black Crowes sono realtà importante ed impagabile. Se ne coglie la grandezza anche in album "minori" come questo, perciò lunga vita a loro.Carico i commenti... con calma