Akron, Ohio. Conosciuta per lo più come capitale della gomma, non deve essere propriamente un posto divertente. Secondo il mio amico Pietro, che ci ha passato un anno, è semplicemente un "buon posto dove morire dimenticati". Fortunatamente i due ragazzi in questione (Dan e Patrick) hanno scelto di formare una band e non moriranno dimenticati, almeno per quanto mi riguarda.
Giunti alla loro terza fatica, i Black Keys raggiungono finalmente una coerenza stilistica e compositiva che rende questo Rubber Factory il loro miglior lavoro finora. E uno dei dischi rock migliori dell'anno, a mio modesto parere.
Il fatto di essere un duo e suonare blues a bassa fedeltà, può subito far pensare a due emuli dei pluri-incensati White Stripes. A grandi linee i gruppi si assomigliano, ma il blues dei Black Keys è più viscerale, e meno "moderno", più sudista e meno metropolitano di quello degli Stripes. Il loro referente musicale non è il Detroit sound, ma il blues delle origini. John Lee Hooker invece di Fred "Sonic" Smith per capirci.
Punto di forza del combo è sicuramente la voce pastosa e strascicata di Dan, una vera goduria per le orecchie, capace a volte di cullare, come nello splendido blues da veranda The Lengths, o di assalire l'ascoltatore, come nello spedito funk-blues 10 A.M. Automatic. La cosa che stupisce è come la loro musica, seppur tutt'altro che innovativa, risulti fresca come una Hall's Mento Liptus, tanto per ribadire il fatto che molti possono abbeverarsi alla fonte del blues, ma pochi riescono a portare un po' di quel sacro nettare con sé, dando nuovo vigore ad una pianta spesso appassita. Ascoltare per credere Just Couldn't Tie Me Down, con tanto di handclaps, Keep Me o The Desperate Man, quest'ultima con vaghe reminiscenze garage. Il fatto che sia stato registrato in una vera rubber factory abbandonata, non fa che aggiungere fascino e coerenza storica ad un disco povero di mezzi ma pieno di sincera passione per la musica.
Altro che Toe Rag Studios!
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