Il bello della vecchia scuola è che si era in grado di mantenere una solida identità ed al contempo abbandonarsi di volta in volta ad ispirazioni di natura diversa, conferendo alla singola opera una sfumatura peculiare che non incideva traumaticamente sul sound da sempre patrocinato, ma che sapeva regalare di volta in volta nuove impressioni all'ascoltatore.
E così, dopo un album secco e monolitico come lo era stato “Abbatia Scl. Clementis”, Mario Di Donato confeziona con limpida disinvoltura un album morbido e variopinto come “Apocalypsis”, terzo full-lenght ufficiale del suo percorso artistico sotto l'etichetta The Black (se non si contano il mini-album di debutto “Reliquiarum” del 1989 e l'opera di riesumazione “Refugium Peccatorum” che aveva seguito “Abbatia Scl. Clementis”).
The Black è il contenitore che Di Donato ha adottato per dare forma al suo metal mentis, specchio fedele della sua ars mentis. E come la sua arte pittorica sa essere ricca e multicolore, così perfino un lavoro che tratta i temi dell'Apocalisse ci suona altrettanto generoso di colori e sfumature.
“Apocalypsis”, uscito nel 1996, è “lo zio” compatto e metafisico del successivo e disomogeneo “Golgotha”, altra riflessione sul declino del mondo e dell'umanità (ma da un'ottica più propriamente sociale), ed in esso vengono spalancate le porte verso lande decisamente più progressive, che invece nel roccioso “Abbatia Scl. Clementis” erano state sacrificate in seno ad un sound granitico e maggiormente tributario dell'heavy metal classico.
Merito dell'innesto in pianta stabile del tastierista Massimiliano Terzoli che, seppur per lo spazio di un solo album, saprà arricchire di nuove sfumature il sound collaudato del musicista pesarese. Ma è la maturazione melodica compiuta in questo “Apocalypsis” che traghetta la musica di The Black al di fuori dei cliché del doom di matrice più tipicamente sabbathiana (etichetta a cui conviene comunque riferirsi, anche se il doom di Di Donato non è mai opprimente ed asfissiante, né dipinto del nero più nero del più nero occultismo).
Ma non è solo l'afflato visionario che il quasi onnipresente organo conferisce ad ogni singolo brano qui contenuto a rendere più suggestiva la musica di The Black: è l'opera dell'instancabile Di Donato che, a quasi vent'anni di onorata militanza metallica, conserva un'ispirazione superlativa, ispirazione che anima le sei corde di un chitarrismo estremamente personale, nonostante i rimandi a sua maestà Tony Iommi rimangano numerosi ed incisivi. Ma è qui lampante (come lo sarà nel successivo “Golgotha”) che la pachidermia della lezione sabbathiana rimane uno dei tanti medium di cui fa utilizzo l'estro di un artista che si forma negli anni settanta e che a quella decade guarda continuamente, senza mai ostentare spocchia eccessiva, ma sempre mettendo tecnica, intelligenza e buon gusto al servizio della fruibilità del prodotto finale.
I testi, sospesi fra latino ed italiano, attingono direttamente dalle Sacre Scritture, e, perfettamente incastonati in un fluire metallico che rinuncia quasi del tutto al formato canzone, conferiscono un'aura mistica che ben si amalgama ai toni minacciosi che la musica di The Black assume in questa sede. Il basso di Enio Nicolini, penalizzato dalla produzione, non risalta più di tanto fra le intricate trame tessute da Di Donato e Terzoli, ritagliandosi dei protagonismi solo in chiave arpeggiata, mentre fondamentale sarà l'ingresso in formazione del talentuoso Gianluca Bracciale (destinato poi a permanere nella band fino ai nostri giorni), il cui drumming imprime un rinnovato dinamismo alla musica di The Black, strizzando tuttavia un occhio agli argomenti trattati nelle liriche: e così, come le caotiche rullate aprono a coinvolgenti ed epiche sfuriate, e così come il sontuoso passo marziale di cui la sua batteria si ammanta restituisce alla musica di The Black la solennità dell'Apocalisse, così la mestizia dei colpi di tamburo o l'incalzare dei ritmi tribali aprono a crescendo volti a materializzare paesaggi fantastici ed ancora riconducenti al lato più visionario che il metal classico può possedere.
I brani (dodici in tutto, di cui quattro strumentali) hanno tutti un loro perché e confluiscono nella struttura di un album che vive di un disegno più ampio che finisce per prevalere sui singoli episodi. E così, se l'esplodere della chitarra e del drumming serrato della terremotante “I Sette Sigilli” sembra riportarci direttamente agli stilemi del precedente “Abbatia Scl. Clementis”, il trittico di pezzi che segue (“Primo et Secondo Angelo”, “Terzo et Quarto Angelo” e “Ultimi Tre Angeli”, il cui succedersi crea un climax di crescente intensità e violenza degna di una mega-suite da fine del mondo), questo trittico di brani, si diceva, apre il cammino ad un metal progressivo ed atmosferico dove la maestosità della chitarra di Di Donato, intrecciata alle dense orchestrazioni di Terzoli, acquisisce una rinnovata enfasi visionaria, sfiorando a tratti un'intensità che potremmo definire wagneriana. La voce di Di Donato è quella che è, ma ormai è talmente parte fondante del sound complessivo della sua musica che è facile perdonargli una performance vocale di non altissimi livelli, ma che è in grado di tratteggiare, per vivide immagini dai contorni mitici, la sostanza concettuale di un lavoro in cui parole e musica sono tutt'uno.
L'album ci suona quindi come un'aspra contesa fra la chitarra epilettica di Di Donato, i pomposi tappeti di tastiere di Terzoli e il furioso drumming di Bracciali: un baccanale dove King Crimson, Yes, Rush, Black Sabbath e horror metal nostrano convivono in perfetta simbiosi.
Imperdibile lo scorcio finale dell'album, dominato da un altro trittico (“La Bestia che Sale dal Mare”, “Prima del Buio” - un agghiacciante interludio di organo – e “La Bestia che Sale dalla Terra”) che completa il complesso schema dell'album, permettendoci di accedere all'ultima parte del concept, quella più dolorosamente distruttiva, dove ormai Metal e Apocalisse sono una cosa sola: un percorso che culmina con l'high-light dell'opera intera, la maestosa title-track, che, per l'intensa prova vocale e le splendide melodie espresse, è senz'altro da annoverare fra i momenti più alti dell'intera carriera di Di Donato.
A “Il Trionfo della Morte” l'onore di chiudere all'insegna del più cupo pessimismo un album che poteva essere il capolavoro definitivo (per compattezza concettuale e contenutistica) da individuare all'interno della discografia di The Black, se non fosse stato per una produzione che non rende giustizia alla complessità del genio creativo del musicista abruzzese, che nemmeno a questo giro delude, mostrandosi in grado di confezionare l'ennesimo gioiello, parto – come sempre – della sua sensibilità, della sua cultura e della sua indelebile ispirazione.
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