“Era lo sbriglio, e gli scivaci tovi

Prillavan succellando nelle vadi;

Tristevoli eran tutti i Borogovi,

E i momi rati lanciavan sbardi.” [Lewis Carroll]

“Un uomo che non capisce nulla di chimica, potrebbe comprendere cosa significa H2O? Si renderebbe conto che quel simbolo potrebbe evocare l’immagine di un oceano?” [Lewis Padgett]

Le arti visive sono la passione del duo The Books. Poi scienza, found sound e balletti. Nick Zammuto, chitarrista del Massachusetts, e Paul De Jong, violinista di Rotterdam, danno vita al progetto a New York City. “Thought For Food” (Tomlab, 2002) è il loro debutto. Le percussioni consistono fragilmente in qualche sparuto colpo sulla cassa della chitarra acustica, le cui corde, pizzicate o accarezzate o spiaccicate, ci accompagnano in un paese delle meraviglie, dietro lo specchio. Voci trovate (per strada, in documentari, radiocronache e film) si affastellano ai singulti del violino. Il resto lo fa un laptop. Così frammenti si compongono candidamente, non già in canzoni lineari ma emulando una sorta di canto corale, panico, in contesti prevalentemente urbani. Sobbalza e cade ogni evidenza. Da un flusso di coscienza leggero riemergono stilemi, o parvenze o simulacri, di flamenco, country blues, hillbilly, folk, musica da camera e musica aleatoria. “Enjoy Your Worries, You May Never Have Them Again”, “Read, Eat, Sleep”, “All Bad Ends” sono costellazioni senza forma ma lampanti; si stagliano all’orizzonte delle architetture cristalline di pioggia e sole che evocano. Pigolii e voci chiare catapultano sulla luna l’Orchestra Pinguina* e un ippogrifo, cavalcato da Terry Riley e Sandy Bull, l’insegue per riportarla sulla terra, sbrindellando carote faustiane. Ogni preoccupazione svapora. Un suono affabile e familiare sale e scende. È caldo come pane. È liscio come burro. “Il pensiero per nutrimento” è allora un’altra idea di popular music, bizzarra ma genuina. Lieve, soave, inventiva, vagamente scontrosa. L’opera è un piccolo gioiello screziato, raggiante. Si contempla con un sorriso. Le voci fuori campo e il raro cantato (“All Our Base Are Belong To Them”, “Getting The Done Job”) galleggiano sugli accordi e sulle scale attonite di chitarra e violino, di banjo e violoncello, sotto i colpi del metallofono.

Se non è la musica delle sfere, almeno è quella dei cilindri. Ti porta lontano, vicino e tutt’intorno. Quando infine giunge un ritmo distinto, un loop scalpicciante, dominano voci infantili e l’adulto regolatore d’improvviso detta il silenzio (“Deafkids”). Ma si possono spiegare musiche che non sono state ancora inventate? O non sono musiche?

Cosa sono mai questi Books? I Books assomigliano a librerie musicali, a un’installazione d’arte, a disegni di uova col buchino sul guscio, a libellule impazzite, alla tartaruga che non si fa superare da Achille, alla formula H2O, a un tasso, a un cavatappi, ai ragionamenti di Humpty Dumpty. Certamente i Books sono “scivaci”, cioè scivolosi e vivaci. Come il ribollire di spuma d’oceano. L’abbandonarsi al fulgore dorato di un breve sogno.

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