Proprio non ce la faccio a recensire Doggerel, l’ultima fatica dei Pixies. Che peccato, che delusione. Diciamo che è stato bello. E che non avrei mai immaginato che una manciata di canzoni avrebbero potuto darmi così tanto, riempiendo e colorando la mia vita per così tanto tempo. Che mi basti. Per consolarmi mi rifugio nel passato e mi riascolto per l’ennesima volta il primo disco delle Breeders. E per ennesima intendo la cinquecentesima, a occhio e croce. Come si dice il primo amore non si scorda mai. Ed io mi innamorai follemente di questo disco e della sua leader proprio dopo il primo scherzo dei folletti di Boston, quel Trompe le Monde in cui si intuiva che le redini del progetto erano adesso in mano al ciccione e che lei, la divina, in quel progetto era diventata, incredibilmente, di troppo. Dico incredibilmente perché Kim Deal rimaneva in quegli anni in una forma artistica strepitosa. Lo dimostra in questa opera prima di grezza (grazie Steve Albini) ed oscura bellezza concepita assieme a Tanya Donnelly delle Throwning Muses. Un disco che il buon Kurt Cobain metteva ai primi posti della sua personale classifica e che preparò il terreno al successo ben più consistente di Last Splash e della sua Cannonball, in heavy rotation su MTV per diverso tempo. Un disco che riflette la complessità di una donna complessa, logorata dai propri fantasmi ma al tempo stesso sorridente, divertita, accogliente. Le canzoni sono l’inquietante prodotto di queste contraddizioni, concepite seguendo canoni solo parzialmente riconducibili all’esperienza Pixies e dotate piuttosto di una loro altrettanto sorprendente identità. Si parte con “Glorious”, e per me sarebbe già sufficiente. L’incidere dolente in 4/4 di una storia di abuso sessuale dove ogni strumento sanguina lentamente qualcosa che non ha niente a che fare ne con i Pixies ne con il grunge. Una strada laterale, musicalmente semplice e contemporaneamente buia, ostile. “Doe” rallegra l’atmosfera, ma è un inganno, sono due ragazzini in acido che vogliono bruciare la loro città. “Happiness is a warm gun” fa il culo all’originale (e parliamo dei Beatles) facendo il paio con un'altra cover Beatlesiana dei Pixies (parlo di Honey Pie, altro caso di devozione violenta al disco bianco, la radice di molte cose). E non voglio stancarvi, cito solo “Fortunately Gone”, che a lungo ho giudicato la mia canzone pop perfetta e che ancora oggi, a distanza di 30 anni e passa, mi ricorda dell’affetto che ho provato per quell’amica del liceo che ti fa ridere, ti fa piangere, quella con cui ti fai la prima canna, quella che ti consola quando ti va male con la belloccia di turno, quella che rimarrete sempre amici ; quella che ad un certo punto però la vedi che non è più lei, che ha qualcosa di strano negli occhi, qualcosa che non riesci a decifrare e che per qualche motivo ti fa paura perché senti che la allontana da te. Ecco, ve lo dico io, se vi siete allontanati è per colpa di qualcosa che è descritto tra le pieghe di questo disco piccolo, memorabile e misterioso.
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