Ad un certo punto mi sono chiesto cosa volessi dalla musica. Cosa di nuovo. Cosa. Per alcuni anni ho molto apprezzato. In quegli stessi lassi di tempo, però, non ho avuto il brivido di quando avevo quindici, diciotto, ventitre anni. E l’assenza di brivido prolungata, di gioventù troppo cotta, mi ha fatto pensare che io avessi dei problemi con la musica. Proprio io. No, non ci ho creduto. Questo mi ha fatto capire cosa volevo dalla musica. Un’emozione spacca cuore e fibrillante, la voglia di uscire di casa dopo un ascolto e provare la sensazione di vedere tutto completamente, radicalmente diverso. La mia connaturata bramosia di essere camaleonte, uscire e stupire tutti magari stando zitto e con lo sguardo appagato, avvolto dalle spirali di nicotina e sorseggiando un infuso di radici del Centro America. Meglio ancora, la mia imprescindibile voglia di fare un viaggio, accompagnato da uno sciamano immaginario, in un deserto che non c’è, a ricercare uno spirito in cui in fondo non credo. Questo voglio dalla musica: sicurezze, allucinazioni, consapevolezza di me. Annullare gli anni che passano. Sapere di poter vedere. Vedere sempre oltre il confine, la barriera del percettibile e del tangibile.
Quel deserto, ad esempio, è qui oppure qui . Le certezze sono nella solidità del progetto (e vado per astrazione), a prescindere dagli interpreti. Le allucinazioni le ho nel frigo. La consapevolezza di me è che non cambierò mai, perché cambio sempre.
In questo album, i pensieri di un cowboy che non è né buono, né brutto, né cattivo. Ha altro per la testa. E una musica solenne e basica, che istituzionalizza le acidità ed immerge nel caldo secco e rettile le paranoie cristallizzate di tanti. Dai Velvet Underground ai Calexico.
Per me, questi, soprattutto in questo album, sono una forma di libertà che l’umanità - tutta!- non ha ancora sperimentato.
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