Non credo servano presentazioni, qui su DeBaser, per la formazione californiana che fa capo al geniale polistrumentista rispondente al nome di Anton Newcombe. Le presentazioni le serbiamo tuttalpiù per questo loro secondo disco, meno stonesiano e più spaziale, quasi "futurista" al cospetto di altri già recensiti successori.

E' come se a un certo punto della loro evoluzione, i BJM avessero deciso di essere ancora più retrospettivi e tuffarsi con tutte le scarpe negli anni sessanta. Ma qui la retrospezione è meno netta, e per questo, in un certo senso futurista. Insomma, qui ci si guarda sempre alle spalle, ma soltanto di un decennio.
Probabilmente, pur avendo mantenuto sin dagli esordi mood e attitudine del passato, agli albori si trovavano più condizionati dal loro presente. Tuttavia, a onta di queste premesse che non fanno che limitarsi a cambiarne l'inquadramento, la loro creatività non viene intaccata, la proposta è sempre rimasta brillante e originale, qualunque fosse il territorio noto che abbiano valicato. Ed il punto di forza di Newcombe e co. risiede proprio nella capacità di saper affrontare con estro una "derivatività" di fondo. Ma per davvero.

"Methodrone" (Bomp! Records, 1995) è un drone - guarda un po'. - psichedelico a presa rapida, un insieme di pseudo-hit, dove ogni tassello è al punto giusto e contribuisce all'innalzamento di un monumento a Velvet Underground, Stones, Bowie, Spacemen 3, MBV e JAMC. Il grande disegno di Anton Newcombe...
E' uno di quei dischi che restano, caratterizzati da canzoni che sono impeccabili, ultraterrene, e lo sono tutte quante, in ogni singola nota di ogni singolo strumento o voce che sia, e risuonano nelle viscere dell'ascoltatore come se quelle canzoni le conoscesse da sempre, come se fossero state scritte la notte dei tempi nel suo inconscio, lasciando quel nonsocché di familiare.

Fondamentalmente si tratta di un disco drogato - guarda un po'. (pt. II): Methodrone, metadone... -, vedasi l'elogio al sound of confusion di spacemeniana (dunque stoogesiana) memoria nell'allucinata "Hyperventilation" (sulla quale viene quasi da cantare rigorosamente in occhiali da sole e con aria minacciosa: «WELL I'M SICK, I'M SO SICK OF A LOT OF PEOPLE...»), cavalcata garage che soltanto apparentemente si perde in lungaggini e spezza l'opera in due, come a voler rodare l'ascoltatore in preparazione del secondo tempo, più eterogeneo e aperto a frammenti sperimentali che espletano generando la monumentale "She's Gone" e il malinconico epilogo della title-track posti in chiusura.
Da segnalare anche l'utilizzo velvetiano delle graziose voci femminili, collocate sporadicamente, ma con estremo buongusto, con parsimonia (vedi "Everyone Say").

Sono brani eterni, come "Wisdom", disposti a mettere d'accordo tutti senza sentire neppure lontanamente l'esigenza di scendere a compromessi, che non possono passare inosservati. E brillano di luce propria, al buio, nel sottosuolo di un classico dimenticato che sarebbe dovuto essere unanimamente considerato tra i manifesti immortali degli anni novanta. Un "Evergreen".

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