In tempi difficili è naturale compattarsi e cercare sicurezza in ciò che si percepisce affine; sprangare porte e finestre, alzare il volume della musica e riprendere fiato per qualche attimo prima che la vita faccia di nuovo irruzione. Meglio se in compagnia di qualcuno che condivida le stesse passioni, lo stesso sguardo sulle cose, e se da sotto la porta serpeggia all'esterno una sottile voluta di fumo dall'odore acre, be', speriamo almeno che le ronde padane stasera non siano in zona.
Si prepara come si può il fortino all'interno del quale reggere l'assedio ansiogeno della realtà percepita e si ricorre a ciò che si sa fare meglio per cercare il tepore rassicurante dell'abitudine.
Il che, se avete una propensione morbosa per i bassi abissali, se siete maniaci dei ritmi sincopati e soprattutto se avete intorno a voi una diecina tra gli esponenti di maggior spicco della dancehall moderna e passata, allora significa: A) che siete The Bug, B) che avete azzeccato l'album che meglio riassume lo spirito del tempo che viviamo.
L'assalto è furioso dal primo all'ultimo capitolo di questo London Zoo, e non bastano i differenti stili vocali degli MC's e le (minime, bisogna dirlo) variazioni nel ritmo per allentare la pressione che ci opprime alle tempie mentre come automi giriamo la manopola del volume finché dal soffitto non cominciano a cadere nuvolette di calcinacci.
La veste stilistica del disco è quella della più pura dancehall, con il dj selecter che arrangia le basi e i vocalisti che si alternano sui pezzi, ma il risultato finale è qualcosa di estremamente moderno e minaccioso, e non è un caso che The Bug sia anche Techno Animal, i God, Ice, e che abbia collaborato con Zorn, Justin Broadrick, Alec Empire, Dalëk, Mark Stewart e molti altri. Le influenze più radicali della musica degli ultimi anni, dal dub all'industrial, dalla techno al free jazz, prestano la loro carica di eversione rumoristica alle basi dilatate forgiate dall'artigiano The Bug e non importa se al microfono sia la volta di qualche star decaduta (Tippa Irie, Ricky Ranking) o di innovatori dal fulgido presente (Spaceape, Warrior Queen), il risultato è sempre straordinario e colpisce duro per compattezza e precisione.
Niente dubstep molliccio qui: beats riverberati e crudi come uno stelo d'erba che si giochi le sue carte nelle crepe di un asfalto cotto dal sole, bassi che trapassano la carne marcescente degli intestini e lanciano stimoli vitali fino alle piante dei piedi che non ne vogliono più sapere di stare fermi, filastrocche in patois giamaicano che riassumono saggezze antiche e moderne miserie.
Tutto qui, e per me è il meglio del 2008.
Carico i commenti... con calma