Terzo disco per il combo capitanato da Mark Burgess e terzo ed ultimo disco della trilogia che ha reso celebri i Chameleons, quelli più autentici e ottantiani.
Partiti come una versione stemperata e sognante dei loro concittadini Joy Division, nel 1983 esordiscono con l'epocale "Script of The Bridge". Disco cupo e malinconico, condito con riverberi di chitarre e atmosfere eteree che daranno vita, qualche anno più tardi, alla stagione del "dream pop" tanto caro a formazioni quali Lowlife, For Against e Cranes.
Amici intimi dei The Sound dello sfortunato Adrian Borland, e con più di un elemento sonoro in comune, i Chameleons si apprestano a produrre nel 1985 l'album "What Does Anything Means? Basically". Certamente non più debitore nei confronti della darkwave e vicino a quanto prodotto, almeno ai tempi, da formazioni quali U2 e The Smiths.
Ma come suonerà il terzo parto di una simile band? Dimenticate il passato e immergetevi nell'ascolto di un'opera che, lentamente, abbandona i classici stilemi della new wave per approdare ad un pop-rock ragionato e alle volte sinfonico. Non è progressive ma poco ci manca.
Date un ascolto a tracks come "Tears", "Swamp Thing" o "Paradiso". Prestate attenzione all'impalcatura sonora e alla durata delle canzoni in esame. Ok, non si tratterà dei Pink Floyd né tantomeno dei Marillion, ma è evidente un evoluzione verso un formato canzone maggiormente complesso e vicino all'Art Rock.
Non disperate! La lieve malinconia che da sempre ha accompagnato i Chameleons è viva e vegeta anche in questa loro terza release. Mai, però, come nel debutto e nemmeno come in ""What Does Anything Means? Basically".
Un disco "maturo", un disco scritto da musicisti che sembrano avere superato la fascinazione per un determinato genere e un disco, questo è certo, che saprà farsi apprezzare senza molti problemi dagli ascoltatori più intelligenti.
Dopo "Strange Times" la disfatta e, nei primi anni del nuovo millennio, la rinascita. Ma questa è tutta un'altra storia.
Carico i commenti... con calma