Tra i pochissimi superstiti di lusso dell'era britpop, un posto di rilievo se lo sono conquistato sicuramente i The Charlatans.
A differenza di colleghi molto più "blasonati" e magari di maggior successo, Tim Burgess e soci hanno cercato in ogni singolo album pubblicato di aggiungere nuove e sempre inedite contaminazioni alla propria musica, mantenutasi sempre su standard qualitativi lusinghieri.
Titolari di un ottimo successo in patria (se si esclude il recente "Up At The Lake", fermatosi ad una comunque dignitosa tredicesima posizione, tutti i dischi del gruppo dal 1994 ad oggi hanno centrato la top ten in patria), i The Charlatans tornano nel 2006 con questo disco dal titolo curioso: "Simpatico".
"E' una parola spagnola, scopro ora che ha un significato anche in italiano. A Mexico City avevo ascoltato una band che si chiamava Los Simapticos e mi era piaciuta. Inoltre la parola simpatico l'ho letta nella biografia di Keith Richards, quando parlava dei suoi rapporti con qualcuno negli anni '60 diceva che era "simpatico" nel senso che c'era intesa con quella persona. Ho cercato il significato sul dizionario, mi è piaciuto e l'ho proposta per il titolo del disco". Questa la spiegazione ufficiale di Burgess.
Per quanto concerne il contenuto del disco, il nuovo "innamoramento" è, stavolta, per influenze inusuali (per il gruppo in questione) quali reggae, dub e funky, mantenendo comunque il tipico marchio di fabbrica della band.
I due singoli estratti per presentare il disco hanno l'ulteriore compito di aprirlo: "Blackened Blue Eyes" ammalia con il suo giro di piano e le chitarre che fanno capolino qua e là, "N.Y.C. (There's No Need To Stop)" suona come se i Red Hot Chili Peppers fossero nati a Birmingham invece che in California.
Il discorso si fa ben più interessante con "For Your Entertainment", applicazione pratica delle contaminazioni succitate, lo stesso dicasi di episodi quali "City Of The Dead" e "Road To Paradise". Non manca comunque il tipico britrock di "Dead Mans Eye", colpisce inoltre il pianoforte incastonato nella melodia reggae-friendly di "The Architect". La nenia di "Glory Glory" è forse l'anello debole del lavoro, cosicché l'attenzione si sposta sullo strumentale di chiusura "Sunset And Vine", fra elettronica e dub.
Decisiva la produzione del bravissimo Jim Lowe, uno che quando entra in studio ha già le idee chiare sulla direzione da prendere; l'album "esce" veramente benissimo, c'è da dirlo, come resa sonora risulta fra i migliori pubblicati nel 2006.
Un lavoro, in definitiva, sorprendente, per una band ormai non più di primo pelo, soprattutto in considerazione del fatto che i dischi più recenti non avevano certo fatto gridare al miracolo.
Buon ritorno, non c'è che dire.
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