Charlie Daniels è un barbuto e corpulento, fascistoide e reazionario artista del profondo sud statunitense. Pressoché sconosciuto da noi, è invece apprezzato e influente punto di riferimento (ormai al tramonto, stiamo parlando di un signore oggi settantaseienne...) dalle sue parti, in ambito country e southern rock.
Tralasciando il country, genere talmente made in USA da non riuscire quasi ad essere esportato nel resto del mondo, è la fase southern rock del nostro, sviluppata nel corso degli anni settanta sulla scia dei pionieri del settore Allman Brothers, quella a mio gusto veramente interessante e quantomeno "esportabile" in direzione delle orecchie degli appassionati del rock americano (decisamente americano).
Daniels è un virtuoso del fiddle, il violino country onnipresente come strumento solista alla maniera del clarinetto per il nostro liscio, ma è stato capace di fare cose grandi anche imbracciando una Gibson Les Paul, ovviamente collegata non ai soliti Marshall o Mesa Boogie o Laney capaci di far ruggire questo strumento come un orso, bensì ad un argentino ampli Fender, in grado di rendere un suono sempre pieno ma rotondo, rintoccante ed armonico come una campana, un piacere per le orecchie dei musicofili.
Daniels naturalmente canta anche le sue canzoni, col suo terribile (o fascinoso, per chi vuole) accento sudista, in un timbro chiaro e molto ben impostato. La sua banda è costituita da un quintetto di brillanti suonatori, fra i quali spicca in particolar modo il talento del pianista Taz Di Gregorio, capace di mischiare il rock'n'roll con il jazz ed il blues sotto le sue agilissime dita.
Sforzandosi quindi di ignorare il cappellaccio da vaccaro d'ordinanza con tanto di fascia esagerata, e più in generale lo scarso talento del pittore che ha curato il ritratto in copertina, affermo che questo è un grandioso album di Southern Rock, inquadrabile grosso modo nello stile Allman Brothers, con meno blues (una voce come quella di Greg Allman per certo non c'è) e più country. L'uso del famigerato fiddle (peraltro pirotecnico, e sinceramente trascinante) è circoscritto ad uno solo dei sette brani, per il resto è un festival di chitarre, quasi sempre elettriche (Daniels è affiancato da un altro chitarrista, di nome Tom Crain), che si scambiano od uniscono le forze sospinte bravamente dalla doppia batteria, un cliché molto in voga da quelle parti e invece non praticato in Europa (tranne e saltuariamente in ambito progressive).
C'è un po' di tutto nei sette brani in scaletta, molto variegati fra di loro. Un paio di essi li considero capolavori nel loro genere, primo fra tutti quello che dà il titolo al disco. E' nettamente diviso in due parti: inizia come un innocuo country rock, ma dopo qualche minuto c'è un break e tutto cambia... parte una cavalcata strumentale sapida e brillante, con spazi solisti a favore di quasi tutti i musicisti coinvolti, intrecci di classe sopraffina, cambi ritmici, bellissimi suoni e massima dinamica. Undici minuti di esaltante proscenio per una musica calda e viscerale, così esotica alle nostre orecchie europee eppure brillante e sincera, se si ha la sensibilità di coglierne il senso.
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