La storia di Ed Simons e Tom Rowlands è ormai abbastanza risaputa: due nerdacchioni negli anni '90 si ritrovano a fare una musica elettronica che setterà uno standard per il decennio successivo. E tre dischi, uno più bello dell'altro, imprescindibili per introdursi in questo tipo di universo musicale, che saldavano, tramite tanti elementi presi dai posti più disparati, l'elettronica più "seduta" a quella più schizofrenica e danzereccia. Quei tre dischi erano una mistura così potente che non ci poteva stare in un piccolo club, erano dei beat così "big" che andavano per forza suonati in spazi enormi, preferibilmente aperti.
Poi arrivò il decennio successivo e i Chemical Brothers si ritrovarono a dover leggittimare la loro posizione: un lavoro più faticoso di quello che potessero immaginare. Si erano, infatti, fregati con le loro mani: avevano generato una spinta creativa tale che emuli di altissimo livello erano in grado di insidiare il loro trono da tutte le direzioni. I due fratellini chimici avevano sottovalutato la situazione e per poco non ne furono sopraffatti (vedi "Push The Button", album deludente, salvabile solo per alcuni singoli mostruosi), poi, in crisi, cercarono pure di distogliere l'attenzione remando da tutt'altra parte rispetto a quanto fatto in precedenza (vedi il quasi kraut "We Are The Night", discreto ma con poco appeal).
Infine, eccoci al nuovo decennio successivo: settimo album. Con Further i Chems vogliono riprendersi ciò che è loro. E lo fanno partendo da una strada inaspettata (anche dal punto di vista formale: 8 brani per "soli" 50 minuti di musica) ma assolutamente goduriosa: fanno dialogare l'elettronica con lo shoegaze. Naturalmente non con lo shoegaze inteso in senso tecnico, che non avrebbe senso parlando di elettronica, ma con le atmosfere sognanti e rarefatte di quel genere. "Snow", ovvero un tappeto industrial (sembra il suono di una stampante misto a quello di un modem 56k) sul quale si sdraiano ad amoreggiare un basso melodico e una voce angelica: non si balla ondeggiando il culo, ma gli occhi, chiusi. La melodia ti avvolge, ti innalza, ti fa roteare nello spazio infinito, quando ecco che un braccio ti acchiappa e cerca di strattonarti in pista: tu vorresti rimanere a sognare ma il braccio è forte, convincente. E' "Escape Velocity" il brano più lungo (quasi 12 minuti), psichedelico, ambizioso, pressante mai generato dai Chemical Brothers. Il punto di riferimento non, è però, il funk acidissimo di 10 anni fa ma un'orgia di tastierine anni '70 dal diverso timbro (una sembra quella di "Baba O' Riley", giuro) che si strusciano maliziosamente, si toccano, si limonano, si penetrano, si schizzano a vicenda. Inoltre, questo pezzo contiene il più vertiginoso crescendo mai sentito in un brano di dance mainstream: a un certo punto sembra davvero di stare accanto ad un Airbus A380 in partenza.
Dopo averci stordito a sufficienza i due fratellini permettono di riprendere fiato con "Another World": sarebbe a dire le suggestioni etiliche dell'hypnagic pop (o chillwave che dir si voglia) portate a un rave di 50.000 persone. E qui di nuovo la trance, lo spaesamento estatico che non ti aspetteresti ma ti ammalia nel profondo, e proprio non resisti, non ci pensi assolutamente a quei fuzz, quegli scoppiettii, quei ritmi sincopati, quegli handclaps da stadio di una volta che ti piacevano tanto. Tuttavia, non mancano i segni di un florido passato: "Dissolve", per esempio, aggiorna agli anni '10 "Let Forever Be" (ma senza nessuna popstar da strapazzo a cantarci sopra. Quelle per fortuna non son sopravvissute all'ultimo decennio). E dopo questo giro di LSD perché non spararsi subito una dose di coca? Ecco, allora, il nitrito iroso dell'incazzatissima "Horse Power": brano la cui riproduzione durante i corsi di aerobica è stata vietata dai più importanti trattati internazionali sui diritti umanoidi, per gli effetti indecorosi che può causare ai deboli di cuore. E poi ancora "Swoon", singolone sudatissimo con un giro di synth che svita la testa (sguiiiiiish), "K+D+B" martellamento percussivo con svolazzo melodico scratchato e duetto di vocine flebili sopra (di cui una di Rowland stesso), infine l'ariosissima e liberatoria "Wonders Of The Deep" che personalmente mi ha ricordato certe atmosfere del gruppo shoegaze romano Klimt 1918.
In definitiva, un disco coraggioso: un'alternanza caldo/freddo rischiosa, un mischione di droghe pauroso che poteva assicurare un coma irreversibile a chiunque non fosse stato abbastanza in grado di dosare in modo corretto. Qui, l'esperienza del duo è stata fondamentale e il risultato è uno sballo fortissimo che non causa paranoia e non tedia praticamente mai.
Il loro miglior disco dai tempi di Come With Us (se non di Surrender): 4,5 e poche chiacchiere.
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