Nell'atlante geografico-sentimentale dei cultori del pop di qualità la Nuova Zelanda, soprattutto quella a cavallo degli anni '80/'90, è luogo ben segnalato, un altro di quei "paradisi" ai quali guardare sovente con una certa nostalgia, non di rado lasciandosi sfuggire qualche lieve sospiro.

Basta pronunciare la parola "kiwi rock" e molti di essi, me compreso, sono sopraffatti dalle melodie, vagheggiando a quell'utopistica isola agli antipodi nella quale, per un certo periodo, si è concretizzata l'ennesima epifania del "lennonmccartneysound", innestato stavolta su un rock chitarristico obliquo e lussureggiante, come l'incantata natura della sua terra d'origine (chi non ricorda le immagini del film della Champion "Lezioni di piano" ?). Band come 'The Verlains', 'The Bats', 'Crowded House', 'The Chills', tutte originarie delle isole dei Maori, hanno aggiunto un altro tassello al luccicante edificio sempre in fieri della perfect pop song.

'The Chills', in particolare, nel 1990 con "Submarine Bells" hanno dato vita, se non al miglior lavoro di quel filone ricco di album importanti e misconosciuti, certamente a quello più rappresentativo che condensa, come meglio non si potrebbe, tutte le principali caratteristiche del "kiwi": sostenibile leggerezza, solari aperture alternate ad atmosfere più umbratili, improvvisi guizzi elettrici new wave, scrittura talvolta impressionista e ricca di chiaroscuri.
A tutto ciò essi aggiungono una spiccata sensibilità ambientalista testimoniata da alcuni testi del songwriter del gruppo Martin Phillipps, dagli appelli presenti nel libretto contro i famigerati test nucleari francesi in Polinesia e dalle splendide foto della cover di gigantesche meduse oceaniche, specie minacciata da metodi di pesca distruttivi, le "campane sottomarine" del titolo, che ancora "suonano" a distesa negli abissi l'allarme per il Pianeta.

L'album si apre con uno dei singoli più riusciti, freschi, ariosi non solo del pop neozelandese, ma dell'intera produzione anni '90, "Heavenly Pop Hit", un piccolo portento, con un organo e dei cori davvero "celestiali". Il brano, posto furbescamente all'inizio, funziona come specchietto per le allodole. Chi infatti si inoltra nell'album attendendosi una serie songs di semplice goduria, rimarrà deluso o sorpreso. Altre corde vengono toccate; altri paesaggi interiori, altri ghiotti riferimenti musicali si dischiuderanno a lui. Già con "Tied Up In Chain" sono percepibili influenze hitchcockiane, riferimenti ai primi 'REM'. "I SOAR" ha un sapore vagamente bucolico, un folk australe di notevole suggestione, una lenta implosione.
In "Familiarity Breeds Contempt" le trame chitarristiche di Phillipps pilotano il gruppo sulla cresta della "nuova onda". "Effloresce & Deliquesce", invece, mette a fuoco un'attitudine psichedelica che, comunque, si percepisce diffusamente per tutto l'album e li lega ai più famosi "cugini" australiani 'The Church'.

La title track che chiude il lavoro è una sorta di acquatica nenia, un sussurrato inno alle profondità marine, con suoni e timbri che sembrano provenire da un'altra dimensione.

"Deep and dark my submarine / bells groan in green and gray / Mine would chine a thousand times / to make you feel okay..."

Seguite i rintocchi di queste liquide campane: nuove terre musicali affascinanti e misteriose potrebbero essere disegnate sulla vostra mappa di esploratori di emozioni.

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