Quando un pomeriggio di tanto tempo fa misi le mani per la prima volta su questo album triplo dei Clash del 1980, già dal primo ascolto mi accorsi che mi trovavo innanzi a qualcosa di mai concepito prima, a qualcosa che avrebbe stravolto il panorama musicale che caratterizzava il periodo a cavallo degli anni '70 e '80. Stavo ascoltando un lavoro incredibilmente multiforme, dalle mille sfaccettature, un travolgente big bang di genialità e creatività, un qualcosa che non si poteva più catalogare con misere e riduttive etichette, un nonsochè di indefinito ma miracolosamente concreto e reale. E più andavo avanti e più mi facevo inesorabilmente rapire, stupefatta, in un vortice di sensazioni più disparate, e nella mia ingenuità di ragazzina mi resi conto che era possibile far coesistere una moltitudine di generi musicali, espressioni culturali ed effetti sonori in un unica mastodontica opera globale.
Provate a immaginare di tornare indietro nel tempo di 24 anni, di posare il vinile sul piatto, giù la puntina, e "The Magnificent Seven" che vi coglie di sorpresa con il suo rap trascinante che vi impedisce di smettere di ballare, di passare dallo spensierato e leggiadro coro femminile di "Hitsville UK" allo strampalato reggae/dub di "Junco Partner", immergervi poi nel funk ipnotico e spaziale di "Ivan Meets G.I. Joe", cantata da Topper Headon, credendo di essere finiti in un videogame dell'anno 2000; svicolare nel rock allegro e vivace di "The Leader" e "Somebody Got Murdered", nel walzer di "Rebel Waltz", sorprendervi con lo swing forsennato di "Look Here", piano e xilofono alle stelle, e con il gospel di "The Sound Of Sinners"; scatenarvi con la spaccatimpani "Police On My Back", commuovervi con la dolorosa e toccante "The Call Up" e con la jazzata e notturna "Broadway", che narra di un barbone "nato durante la depressione", a mio avviso con "Ivan Meets G.I. Joe", uno dei punti più "alti" dell'album e dei Clash in generale. E poi l'aggressiva e incisiva "Lose This Skin", la briosa "Washington Bulletts" dai ritmi caraibici, il funk soft ed elegante di "Version City", arrivando alla ballata infantile "Career Opportunities" e al dub particolare di "Sheperd's Delight", senza dimenticare brani memorabili come come "If The Music Could Talk", "Lightning Strikes" sulla stessa onda durissima e rap di "The Magnificent Seven", e la splendida e solenne "The Street Parade".
Sandinista! è un album che definire coraggioso è ancora troppo poco, ricchissimo di momenti di straordinaria bellezza e inventiva alternati da alcune parentesi sperimentali meno riuscite e grezze ma di indubbia originalità; all'epoca o lo si amava sin dal primo impatto o lo si odiava, non c'erano vie di mezzo per un opera così singolare, così vasta nella sua durata e complessità, così piacevolmente sofisticata ed è sempre stata opinione dei suoi detrattori considerarla, a torto, eccessivamente ambiziosa, prolissa, con troppa carne al fuoco e poco omogenea. I Clash erano maturati e, ben consapevoli delle loro capacità compositive e strumentali e di essere all'altezza di scrivere testi impegnati e tutt'altro che rozzi, avevano osato intraprendere un primitivo percorso di musica globale, di World Music, per quella voglia di sperimentare, di estraniarsi dalle mode, di confrontarsi con realtà culturali e musicali diverse e lontane dalla vecchia Inghilterra e di avere quell'impegno sociale e politico che li distingueva da tutti gli altri. Con Sandinista! questo ecclettico e sorprendente gruppo ci lascia in eredità un capolavoro senza tempo che poco ha da spartire con i parametri musicali dell'epoca e che ancora oggi sconcerta e affascina chi lo ascolta per la prima volta e chi lo ama e lo ha amato incondizionatamente.
Carico i commenti... con calma