Seguo i Clientele da un po'. Da quando i miei autunni hanno il gusto del loro intimismo saporoso. Quest'anno mi attendevo qualcosa dal nuovo "God Save The Clientele". Ma l'ho trovato un irritante omaggio alla primavera più melensa. Tutto il loro folk rock molto british e sixties consacrato alla dea dello zucchero a velo. Uno spreco delittuoso. E allora ho ripreso in mano questa raccolta di vecchie chicche del 2005, e un po' mi sono consolato.

Sedici canzoni da brevi a brevissime, tra i Byrds e Belle And Sebastian. L'originalità sta negli arrangiamenti cavernosi, cupi, da stagione fredda in un paesino nordirlandese. Nel giardino crescono le tuberose, l'erba è sempre umida, le nebbie ti stringono i fianchi. I Clientele prendono i Beatles e li rinchiudono dentro un tubo: le chitarre sanno di muffa, la batteria sgocciola, la voce è raffreddata. "Graven Wood", in apertura, anticipa le sonorità dell'Albarn più recente, anche per la voce nasale. È il legno dei larici incavati e delle taverne fredde. Un giro di acustica ipnotico e poco più.

Certo è che i Clientele suonano come una band di quarant'anni fa, tali e quali. Non c'è nulla di brit-pop, perché non c'è nulla di moderno. Il motivo per cui uno dovrebbe ascoltare i Clientele e non i Byrds è essenzialmente perché qualsiasi generazione disconosce la precedente e le sue icone, anche quando ne rifà il verso.

"Dear Jennifer" è un pezzo folk anni sessanta registrato con pochi danari. "Elm Grow Window", con i suoi arpeggi fibrosi, è tra le cose migliori, tra i pezzi che sudano più albionicità, un ritratto da pub Vecchia Inghilterra, una pinta leggera. "Untitled #2" è la canzone più nebbiosa del disco: la registrazione è meno che lo-fi, un buzz costante sporca tutto, tra cui la lugubre melodia. Pochi brani hanno una struttura classica, perché i ritornelli sono sostituiti quasi sempre da altre strofe, con effetti cantilenanti, da trance, da stregoneria. Paesaggi brumosi. "Can't Sleep" è una canzone invecchiata, è una foto digitale ritoccata e colorata di seppia. Patina lo-fi clamorosa.

Il dio delle foglie morte, alla fine del disco, ringrazia per la celebrazione. Ne avrete in cambio un tardo pomeriggio di nostalgia abissale e una serie di sogni notturni ambientati sotto le nuvole pesantissime della Scozia del nord. Ascoltare "It's Art Dad" vi permette di andare in un lungo letargo invernale dalla musica inglese: ne avrete abbastanza per mesi. La cosa può essere salutare: provateci.

 

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