Una falsetto impossibile e una straordinaria somiglianza con Titti, il canarino di Gatto Silvestro.
Fragile, indifeso ma battagliero. In una parola: Jimmy Somerville.
Dichiaratamente gay, nei primi anni ’80 forma i Bronski Beat e con “The age of consent” mette in salsa pop la difficile condizione del proletariato omosessuale nell’Inghilterra thatcheriana vendendo milioni di copie, grazie a singoli efficacissimi: “Smalltown boy”, “Why”, la gershwiniana “Ain’t necessarily so”.
Poi il giocattolo si rompe, i compagni di strada recuperano un nuovo, insulso cantante e lui va a sbattere in un serioso polistrumentista di nome Richard Coles, con cui forma i Communards.

I due comunardi (di nome e di fatto: l’attacco alla “Breadline Britain” dove “il fascismo conduce una nuova danza” e “privatizzerebbero tua madre” è un vero manifesto politico, come l’amara dedica a Margaret Thatcher in “Reprise”) si mettono al lavoro e quello che ne esce fuori dimostra che Jimmy era il vero e unico talento dietro al battito di Bronski. La sua voce qui tocca vertici da fantascienza senza essere mai enfatico o caricaturale, Coles ha una chiara formazione pianistica a metà tra la classica e il jazz e cesella strutture sinuose con cui accompagnare le acrobazie del minuscolo cantante.

Somerville e Coles sembrano due piccoli chimici in stato di grazia e distillano tutto quello che gli capita a tiro: la lezione di “Smalltown boy”, tirata a lucido, si vede ancora in “You are my world”, dove Coles e Somerville gareggiano in virtuosismi vocali e pianistici, e nella dance drammatica di “Disenchanted”, ma nuovi mondi appaiono all’orizzonte. “Breadline Britain” deve molto a Brecht/Weil, “La dolarosa” è un flamenco aspro e struggente, “Don’t slip away” gioca con la Black music, “Don’t leave me this way”, un successo planetario, coverizza un classico disco/soul e si permette di coinvolgere anche un mostro sacro come Sarah Jane Morris. Con la trascinante “So cold the night” il calderone si arricchisce di spezie orientali, e tanto per non farsi mancare niente i Communards sfidano nientemeno che sua maestà Billie Holiday in “Loverman”, buttandola un po’ sul “divertissement” ma cavandosela piuttosto bene.

R&B, disco, jazz, suoni etnici vengono buttati in pentola senza schemi né preconcetti.
La maionese non impazzisce grazie a un livello di scrittura ottimo e arrangiamenti decisamente sobri per l’epoca (stiamo parlando di metà anni ’80, le icone della scena pop gay-friendly sono Marc Almond, i Dead or Alive e i Village People… gente che di sobrietà non voleva nemmeno sentir parlare).

Senza parlare di capolavoro, “The Communards” (come il suo successore, “Red”) è tuttora un gran bel disco, suonato e cantato magnificamente. Pur essendo dinamico e ricco di momenti ballabili, per me è un disco d’inverno: riesce a creare un’atmosfera calda e avvolgente adatta a una serata fredda, magari con il caminetto acceso, un libro di Jonathan Coe sulle ginocchia e un gatto acciambellato accanto. Se potete, sostituite al gatto un essere umano (scegliete voi il sesso che preferite): Titti il canarino, in tal caso, potrebbe addirittura risultare afrodisiaco.

Un disco da riscoprire.

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