Dopo una fase di alterne fortune e di instabilità strutturale, ma memori di un passato glorioso culminato a metà anni '80 con una tripletta di album assai tosti, i Cult di Ian Astbury e Billy Duffy con l'inizio del nuovo millennio tornarono alla carica. E lo fecero con un lavoro tra i più robusti e determinati della loro carriera: "Beyond Good And Evil".

Due sono gli elementi che balzano immediatamente all'orecchio nel primo approccio con il disco: il massiccio potenziamento del suono delle chitarre e la definitiva rilettura dello stile di impronta Zeppelin portato al suo massimo splendore.

Che i Cult avessero sempre teso lo sguardo a Jimmy Page non è un mistero e benchè in opere come "Love" le venature dark e i riferimenti culturali mistico-epici avessero personalizzato maggiormente il sound (anche grazie al gusto dominante dell'epoca), la scelta compositiva dei riff e l'impostazione canora di Duffy e Astbury si è sempre rifatta con evidenza al rock distorto degli anni '70. In "Beyond Good And Evil" questa scelta non lascia più ombre di dubbio e celebra con magniloquenza e ferocia antemica una serie di impressioni dure a morire nel cuore dei rockettari.

Ciò che in tempi recenti (soprattutto dalla metà dei '90 in poi) altri musicisti mondiali come Aerosmith o Bon Jovi hanno portato ad un azzeramento popolare di facile presa, dove la melodia e un'iconografia quasi addomesticata la fanno da padrone, i Cult hanno invece amplificato in direzione opposta, con un suono di potenza e saturazione inaudite e uno spessore lirico che se a tratti scivola nel clichè ("The power" ad esempio), altrove catapulta in una dimensione per nulla solare ("American Gothic", "Speed Of Light"). Senza allontanarsi da quelli che furono i cavalli di battaglia di vent'anni prima, Astbury e soci rimettono in gioco tutta la loro esperienza e si affidano ad una produzione che non ama le mezze misure. Qualche finezza strumentale qua e là, qualche ammiccamento al grunge meno vulgato, ma soprattutto tanta anima rock che vuole trafiggere i timpani con distorsioni da stordimento e ritornelli graffianti. Dalla splendida martellante "The Saints", passando per la killingjokiana "Rise" e la struggente "Nico", fino alle oscure trame di "American Gothic" e "Ashes And Ghosts", i nuovi Cult giocano tutte le loro carte e creano qualcosa che se da un lato ha quasi dell'anacronistico, dall'altro ti sbatte in faccia una verità mai realmente confutata (il rock NON è morto) e dimostra che con una formula classica si può ancora dare un brivido.

Spesso ci si chiede perchè una band che ha già conosciuto il suo picco di fama e stile debba riprendere il discorso a distanza di anni, rischiando delusioni se non fallimenti. Nel caso dei Cult credo che il ritorno di fiamma non sia stato illusorio e che questo album rappresenti un bel capitolo della loro storia; un capitolo che non brilla per originalità musicale in senso stretto, ma che coinvolge con ritmi travolgenti e una compattezza straordinaria. Sottolineo ancora il suono devastante delle chitarre, al cui confronto sembrano mandolini quelle di Guns 'n' Roses e Nirvana.

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