I Cult sono una creatura formata agli inizi degli anni ottanta dall’incontro tra il singer statunitense Ian Astbury ed il chitarrista inglese Billy Duffy, che già aveva un bagaglio musicale alle spalle di tutto riguardo, avendo militato nella leggendaria dark band dei Theatre of Pain. Nati come Southern Death Cult, nome successivamente modificato in Death Cult e, infine, in The Cult, la band ha auto un ruolo di primo piano nella scena hard rock americana degli eighties, soprattutto con i vendutissimi “Love”, “Electric” e “Sonic Temple”, divenendo uno dei gruppi di riferimento per la nascita dell’hard street rock americano tanto caro a bands come Guns n’ Roses e via dicendo.
Prima di approdare, tuttavia, ad un suono hard rock più convenzionale, i Cult, sulla scia del movimento dark e gothic che imperversava nei primi anni ottanta, diedero alle stampe i primi due albums, “Dreamtime” e il già citato “Love”, in cui al rock classico pesantemente influenzato dai Led Zeppelin (spesso si rimproverò ad Astbury e soci il suono molto zeppeliniano delle loro songs) e dagli Ac/dc, si accompagnava una leggera ma decisa venatura di rock gothico, tant’è che, ancora oggi, molti critici inseriscono la band dei primi due lavori nel calderone rock gotico del periodo.
“Love” rappresenta il punto più alto della loro discografia ed è stato anche l’album più venduto, trainato com’era dalla famosa hit “Rain”. Si commetterebbe, tuttavia, un grosso errore ad assorbire completamente il disco nella sua canzone più famosa, perché l’album contiene momenti davvero intensi, ripartito com’è tra la carica delle cavalcate rock rappresentata da canzoni come la sopra citata “Rain”, l’opener “Nirvana”, la title track , “The Phoenix”, “Hollow Man” in cui prevale l’aspetto più rocckeggiante fortemente influenzato dai Zep e dagli Ac/dc; le tinte gotiche di songs quali “Big Neon Glitter”, “Little Face” e dalla conturbante “She Sells Sanctuary”; il fascino malinconico della ballata “Revolution”, il rock blues di “Judith”.
Una attenzione particolare merita “Brother Wolf, Sister Moon”, in cui, come si può evincere anche dal titolo, echeggiano melodie e suoni che ci riportano alla cultura degli Indiani d’America (tema molto caro ad Astbury e che lo accompagnerà per tutta la sua carriera), e che rappresenta, a mio parere, il punto più alto dell’intero disco per intensità e per le emozioni che sa inculcare nell’ascoltatore.
In conclusione posso affermare con sicurezza che seppure i Cult non siano stati inventori di nulla ed, anzi, come più volte detto, hanno attinto a piene mani dal repertorio di Led Zeppelin e Ac/dc, si è al cospetto di una grande band che ha fatto della grinta e della dedizione la propria forza (grazie soprattutto al carisma dei fondatori Astbury e Duffy) e che ha avuto il merito si suonare sempre un rock caldo e sanguigno che ha fatto sì che molti gruppi street rock, nati sul finire degli anni ottanta, sia siano a loro ispirati.
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