Non è del tutto chiaro se la raccolta "4Play", CD promozionale scaricabile dal sito di i-Tunes, sia esattamente una collezione di canzoni che costituisce un vera e propria compilation a carattere "interlocutorio" (in attesa del prossimo annunciato nuovo album di inediti), o se si tratti di una proposta più "leggera" sotto il profilo commerciale, con la possibilità di scelta che il downloading garantisce a chi è già in possesso di parte (la metà o poco meno) delle tracce qui riportate.
Tuttavia quello che conta in questo momento, tenendo conto del fatto che i conoscitori del gruppo posseggono sicuramente le edizioni passate dei quattro albums dai quali sono estratti i relativi singoli, intervallati dalla versione live di un altro brano tratto dai medesimi album negli anni dei relativi tour, è una considerazione di più ampio respiro su ciò che la band di R. Smith al momento rappresenta, significa, e riesce a esprimere artisticamente e commercialmente. Guardare e rivivere quei momenti (i primi 4 album di fatto, semplificando un pò la filologia discografica) dalla prospettiva del 2006, ha forse il significato di "ricontestualizzare" l'intera opera dei Cure, che si dipana dalla fine degli anni '70 sino all'ultimo album, omonimo, "The Cure".
Molte cose sono nel frattempo accadute, ma vale la pena ripercorrerle, sia per sfatare alcuni luoghi comuni ormai troppo ripetuti, sia perchè generalmente la comprensione del futuro viene rinforzata e chiarificata dalla messa a fuoco (ora che ci sono le debite distanze temporali) del passato. Tralasciando la seconda parte del CD, relativa alle interviste, possiamo individuare in questi primi 4 albums ("Three Imaginary Boys", "Seventeen Seconds", "Faith", "Pornognaphy", con l'omissione del più noto "Boys Don't Cry", in origine nato in realtà come riedizione "arricchita" e "mitigata" dal primo "hit", del più sperimentale e sfuggente citato primo album), il primo segmento della parabola stilistica e creativa dei Cure, dall'esordio psichedelico-post punk-pop che di fatto sottese senza disvelarlo l'epicentro creativo della successiva "trilogia", seventeen seconds-faith-pornography, opere in cui la band di Crawley codificò il proprio modus espressivo.
'Seventeen Seconds', rappresenta un capolavoro di minimalismo rock-psichedelico incentrato sul suono prodotto da tastiere e basso (Play For Today), con linee chitarristiche essenziali, sottilmente racchiuso tuttavia in una dimensione infinita, come l'intuizione dello spazio cosmico oltre la linea degli alberi. Se le tastiere "aprono" l'orizzonte del suono ai grandi scenari interiori, il dinamismo di basso e chitarre produce un effetto "implosivo" (alla Joy Division)rendono alla perfezione l'idea dell'angoscia e del senso di sopensione del destino che caratterizzerà l'intera poetica di Robert Smith (“M”, “Seventeen Seconds” ), fino all'estetizzazione del movimento come suggestione quasi "visiva" interiore/esteriore creata dalla cinematica “A Forest”. “Faith”, da un lato sviluppa più apertamente tale poetica di incertezza e dubbio, sospesa tra abbandono e disperazione (“The Drawning Man”, “Doubt”), e ricerca di rifugio a tale dolore esistenziale (“Faith”), dall'altro, lungo il versante musicale, sembra impoverire (in maniera "sottrattiva") gli arrangiamenti del precedente lavoro dalla presenza delle chitarre e di certe tastiere che da infinite, o a tratti romantiche e sognanti qui si appesantiscono e divengono plumbee.
Incentrato anch'esso sull'interazione tra grandi scenari e dimensione di intimismo sofferto, “Faith” nell'insieme dà l'idea di una paura e di un'ansia sottile, ma pervasiva, che in definitiva costituisce l'asse portante dell'intero periodo creativo. “Pornography” , destinato a divenire il "manifesto" del Dark come sotto-genere della new wave, fa esplodere tali tensioni che dal piano interiore si spostano sul versante dei suoni: chitarre fragorose e distorte fino ai limiti del rumore puro (“Pornography”), drum machine cadenzata e ipercinetica, (la canzone-manifesto dell'intera epopea dark “One Hundred Years”), che tuttavia nel corso dell'opera si sciolgono in melodie più dolci e romantiche, ritmi più lenti e quasi ipnotici (“A Strange Day”, “A Short Term Effect”), fino a suites delicate e commoventi come la splendida “Siamese Twins”, anche se volutamente appesantite e distorte, anche se illuminate da una luce sinistra e onirica, sono "canzoni" che riescono miracolosamente a raggiungere un equilibrio tra potenza del drumming, pesantezza delle linee di basso, chitarre aspre e corrosive e lirismo dei testi (un esempio: “The Figurehead”); “Pornography” costituisce un punto di non-ritorno oltre il quale il gruppo incontrerà una serie di difficoltà crescenti, fino allo scioglimento momentaneo del gruppo, ma che (fortunatamente) porteranno ad una crescita e ad una maturazione artistica ed espressiva.
L’integrazione, difficile ma gradualmente raggiunta, della componente pop nella forma codificata da questi primi quattro albums, condurrà il gruppo di Robert Smith a realizzare canzoni più aperte e contaminate, ora quasi electro-pop (“The Walk”), ora esotiche e psichedeliche (“The Caterpillar” ), sino al compimento di tale sintesi negli albums che segnano il graduale evolversi del sound e la conquista di parti sempre più ampie di pubblico (“The Head on the Door”, “Kiss Me Kiss Me Kiss Me”), le opere più monumentali e mature sotto il profilo musicale (“Disintegration”, “Wish”) il 1° posto in classifica raggiunto nel 1992, la difficile gestazione di un album (“Wild Mood Swings”), spiazzante e forse abbastanza incompreso da certa parte della critica, in realtà caratterizza uno dei momenti più fluidi e creativi di Robert Smith e Co, sino a “Bloodflowers”, annunciato come una sorta di epilogo della carriera del gruppo.
In un certo senso è stato così, con la precisazione che è stata la fine di un ciclo, quello della britannica Fiction, e non certo dei Cure. L’album omonimo, (non a caso) intitolato “The Cure”, esce dopo il contratto con la Geffen, major americana decisamente più potente a livello commerciale, e questo è il contesto attuale nel quale osservare ciò che il gruppo riesce ancora a dire. Non è certamente poco, e ancora una volta le critiche negative sottolineano la parziale difficoltà nel focalizzare l’evoluzione di un talento, quello di R. Smith, che per quanto espresso in modo controverso, ha pochi eguali. In definitiva i Cure sono e restano i Cure, un gruppo che moltissimo ha dato, e che molto, nei limiti di ogni carriera artistica, può ancora dare. Ciò che in questo momento è un po’ “spiazzante” non è la musica del gruppo, ma a mio parere la gestione della label.
Non ha infatti un chiaro significato questa compilation, né soprattutto appare condivisibile la riedizione in deluxe packaging con “enhanced CD”, e bonus tracks CD allegati degli album precedenti, contenenti materiale inedito, o rarità, prima irreperibili (anche perché volutamente non accessibili) e ora pagate (da chi ama da molti anni questo gruppo, come chi scrive) a ben più caro prezzo.
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