20 anni di carriera (storia?) ed un numero considerevole di "copie vendute nel mondo" sono quanto i Cure hanno alle spalle quando nel 2000 esce questo loro ultimo lavoro.
Un disco sottovalutato, non capito, discriminato. Forse è una vendetta. Perché ci si è sentiti traditi, sconcertati, da quella drastica virata che trasformò una delle migliori band della Dark Wave in... in... no, non so dire in cosa. Non voglio dire cosa.

Melodie orecchiabili, ballate pop, successi da classifica.
Molti si sono detti fan dei Cure ignorando totalmente il primo periodo. E chi in quel primo periodo gli aveva amati, non sapeva cosa pensare.
Forse siamo stati ingiusti.
Per anni Robert Smith ha condiviso i suoi tormenti nelle sue canzoni, e quando probabilmente ha ottenuto nella vita quella serenità da tempo inseguita... beh, gliene abbiamo fatta una colpa.
Fortunatamente per lui, questo non lo ha fermato; è andato avanti per la sua strada ("Credono che siamo un gruppo pop? ...non importa, non mi sono mai preso troppo sul serio" disse una volta) e spero sinceramente che sia stato felice.

Ma Bloodflowers è diverso. I Cure hanno trovato nuovamente qualcosa da dire: "Noi abbiamo finito".
Se visto nell'ottica di testamento di un gruppo con un suo ruolo ben definito nella storia della musica, questo disco diventa addirittura perfetto.

Testi dal messaggio inequivocabile ed una capacità compositiva musicale oramai indiscutibile. Ma soprattutto vanno premiate le atmosfere, torna la sensazione che il gruppo sia coinvolto in quello che fa... anche se questo è un addio.

"I used to feed the fire, but the fire is almoust out... and there's nothing left to burn".

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