Il primo album dei The Cure dal vivo merita un attimo di riflessione. L’ho visto proprio l’altro giorno campeggiare tra le offerte (…) di un supermercato dove mi trovavo a fare la spesa, e subito mi è tornato in mente l’ellepi ormai ridotto a freesbee straconsumato dell’epoca adolescente, che riposa in pace da qualche parte tra i miei dischi. L’album in questione è datato 1984, ragion per cui siamo nel pieno della produzione di una band che in studio, nella decade ’80 – ’89, ci ha regalato ben sette album in studio. "Concert / The Cure Live" è successivo alla pubblicazione di "The Top", dello stesso anno.

Perché approfondire l’unica recensione già esistente su questo disco? Il derecensore che si è curato di questo live nel 2006 ha fatto un buon lavoro, approntando uno scritto che invoglia e che, senza troppi fronzoli, indica l’importanza di questo lavoro. Potreste quindi integrare (se vi va) le due recensioni e leggere quella per avere qualche dritta sui brani e questa per un’analisi spero piacevole sulla portata dell’uscita in questione.

I Cure dal vivo li ho visti in epoca recente e quindi, paradossalmente, tarda. Ma mi sono reso conto che l’intensità degli shows sul palco è davvero un punto di forza della band inglese. Se ottengono risultati ottimi oggi, provate a figurarvi cosa dovevano essere all’epoca. Questa la prima motivazione del mio 5 tondo. All’epoca, dunque, i nostri mettevano in scena la carcassa disidratata e asciugata del punk, dipingendo un fiammeggiante e arido quadro a tinte noise. Un rock fosco e semplice, senza orpelli, che dà la sensazione di essere esposti a uno scirocco mortale che non prevede possibilità di appello. Mi viene spontanea la catalogazione concettuale di questo Concert come pamphlet musicale che include le direttive del death rock. Ma sarebbe troppo poco.

Altra componente che emerge nitida da queste prestazioni, registrate tra Londra e Oxford sempre nel 1984, è la presenza di un marcato fattore psicotico con suoni che evocano frame psichedelici e che quindi non svolgono una vera e propria azione onirica ma si vanno a insediare nello slow motion di una rivisitazione di se stessi tramite il sogno. Questa musica è, di fatto, antesignana delle sonorità di gruppi come Portishead e Massive Attack. Infine l’anima trasversale di questa entusiasmante e straripante opera live: il rock. Preceduto, in qualsiasi forma lo percepiate, sempre dalla radice “post-”. La dark wave d’epoca è logicamente il riferimento più obiettivo ma anche questa, nel proliferare di emozioni e sensazioni dell’immedesimazione, sarebbe incredibilmente dire poco. Per un buon ascolto critico bisogna contestualizzarsi e pensare di essere lì in quegli anni, con tutto quello che ciò comporta. Bisogna avere le basi del gothic rock ’80 per fornire una valutazione a tutto tondo del Concert.

Vi troverete così di fronte ad un’interpretazione dark del tutto personale, in cui convivono My Bloody Valentine, Joy Division, Sisters Of Mercy e volendo anche i Lycia con un’operazione di sintesi, riduzione e personalità che solo il genio creativo di Robert Smith & soci poteva operare. Una reductio ad unum significativa, perché diventa humus di suoni che vanno avanti e diventano più contemporanei e nuovi. Pur appartenendo al primo lustro degli 80, questo potrebbe essere un disco anni 90 tant’è fresca e nuova la proposta live dei Cure. Il rock duro viene sezionato per prenderne solo le parti utili come in una lezione universitaria di anatomia. Il punk è steso a terra e tutto ciò che se ne ha è l’ultimo sguardo sul mondo del genere ucciso, una visione praticamente ribaltata e verticale, in cui l’anima cade e resta solo lo scheletro. Il gothic rock viaggia tra l’eterea psichedelica e la scottante e viva realtà di un genere condannato all’oscurità.

I fans presenti dovevano essere entusiasti della performance sottolineando con evidente apprezzamento ogni brano e partecipando a volte al cantato. La tracklist è davvero ben studiata. Invita all’acquisto già da sola: "Shake Dog Shake", "Primary", "Charlotte Sometimes", "The Hanging Garden", "Give Me It", "The Walk", "One Hundred Years", "A Forest", "10:15 Saturday Night" e "Killing an Arab" sono scelte intelligenti tra classici immancabili e pezzi che non ti aspetti. Complessivamente il miglior dagherrotipo che si poteva fare sulla band all’epoca. L’artwork della copertina è dominato dal nero che lascia poco spazio al bianco. Foto bruciate e ridotte a questi due colori campeggiano nei rettangoli sul fronte. Sul retro, nell’area degli stessi rettangoli, i nomi dei musicisti. Un minimalismo che ben esprime l’animo di una band comunque ricca sfondata di creatività macabra.

Fate un salto al supermercato a vedere se ne è rimasta qualche copia.

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