1989. I sobbalzi giocosi di Kiss Me Kiss Me Kiss Me sono un ricordo: agli occhi di Robert Smith, ovviamente cerchiati di nero, tornano le antiche angosce, i vecchi patemi, le rinnovate paranoie arricchite del malessere di neotrentenne sposato. Dopo le sfaccettature pop apparse qua e là, "Disintegration" raccoglie i cocci plumbei lasciati per terra sette anni prima da "Pornography" e assembla un nuovo grande (forse il più grande) capitolo della storia dei Cure.

Gocce cinesi cadono nello stagno, quando all’improvviso un’esplosione maestosa e lucente di suoni profondi e dolci allo stesso tempo avvolge il paesaggio col suo ritmo cadenzato e solenne. "Plainsong" è lì a dire che il Robert Smith clownesco si è preso una vacanza ed è tornato ad avventurarsi nei suoi labirinti specchiati, immersi come mai prima in oceani di tastiere create ad arte. Le riflessioni tristi e lugubri ma al contempo dolci e anestetizzate fungono da apertura solenne e spiazzante di un disco nuovamente omogeneo.
E’ più snella "Pictures Of You", caratterizzata dal familiare intreccio pieno di eco tra chitarre e basso: il ruolo del doppio (qui rappresentato dalle fotografie sfogliate, raccolte ed analizzate) ricorre spesso nella poesia di Smith, che sia un’altra persona o un riflesso di se stessi. Lo scorrere lento ma deciso in un corridoio di ghiaccio tiepido accentua il cantato chiaro di Robert e i lavori di chitarra, mai sopra le righe ma sempre di fattura certosina: un abbraccio malinconico e confezionato alla perfezione.
I battiti profondissimi, rassicuranti e minacciosi al tempo stesso, confezionati da Williams e Gallup introducono "Closedown", altro mastodonte musicale su cui O’Donnell costruisce imponenti muraglioni di elettronica, emozionanti come non mai. I riverberi della chitarra rimbalzano, lievemente sballottati in questa stanza di specchi in fondo al mare, portati da una corrente di sintetizzatori verso il racconto affranto di Smith del suo senso opprimente di vecchiaia; la tristezza cosciente di non riuscire a riempirsi di emozioni, il peso greve di un’età che non gli è mai appartenuta, un vento fitto e spesso di sensazioni contrastanti: il tutto in un magnifico dipinto di pesante soavità.

La successiva "Lovesong" è il punto di rottura del disco: non tanto nei suoni, leggermente meno opprimenti, quando nelle tematiche. La canzone è infatti il regalo di nozze di Robert Smith per la sua compagna di sempre, Mary Poole; il pezzo è di fatto un inno alla moglie, una rifrazione della parte più dolcemente melanconica del clown triste. Meno gonfia di suoni ma al contempo sinistramente svuotata, "Lovesong" è sì una canzone d’amore, ma tinteggiata a caratteri gotici e gioiosamente oscuri.
Il tempo torna a dilatarsi e a perdersi in oceani sonori e in dolci ruscelli malinconici, la voce a sei corde si moltiplica in mille bolle erranti nel buio, mentre le strofe cantate si inseriscono perfettamente nella cornice nera: "Last Dance" è Cure al cento per cento, piena di suoni e significati ma portatrice di un senso di vuoto costante ed invincibile.

Il pezzo più conosciuto del disco, "Lullaby", è una strana ninnananna horror tipicamente britannica, priva di molto senso logico ma penetrante. Il caro Robert (immortalato nel video della canzone in un improbabile pigiama a righe mentre lotta contro un ragno gigante) sussurra la nenia scandita da una ritmica granitica e spastica: il terrore di essere divorato dall’uomo-ragno protagonista è il medesimo di essere la creatura stessa, in un’altra rappresentazione allo specchio di una favola notturna. Lo zampettare e l’incedere rapido e traballante del mostro è perfettamente ritratto dagli archi di O’Donnell, sintetizzati ora schizofrenici ora distesi in una trama spaventosa ma al tempo stesso tanto orecchiabile.
"Fascination Street" è travolgente come non mai, una corsa nella notte guidata dal basso strepitoso di Gallup che parte, si incendia e non si ferma più. Gli spettri di chitarra passano veloci accanto al finestrino, distorti e vacui come inzuppati nell’acido, mentre le gocce di elettronica cadono rapide addosso, scrollate via dal martellare di Wiliams e dalla voce di Smith: una perfetta canzone rock.

I suoni tentano di crescere in "Prayers For Rain", ma vengono gettati in un gorgo senza fine, uno spazio senza gravità in cui fluttuano prepotenti lingue di fuoco che si attorcigliano, soffocando e stringendo la presa. I passi elettronici si avvicinano sempre di più, incombenti in questo affresco claustrofobico e minaccioso. L’acqua viene vista come elemento di salvezza, addirittura si prega per averla, in netto contrasto con la visione di carceriere e comune prigione della successiva "The Same Deep Water As You": una cella di problemi e sentimenti che affossano, annegano appunto. Qui Robert Smith tenta di lottare contro l’anestetizzante effetto del mare in dolce tempesta, un incredibile lavoro di O’Donnell nel ricreare l’esatta sensazione della pioggia nell’oceano. Ogni singola nota di Thompson è una bracciata luminosa per sfuggire alle onde, al naufragio in slow motion che sta avvenendo nel cuore di Smith, lento ma inevitabile, tanto che i baci una volta mezzo di vampireschi giochi, diventano un epitaffio comune, nell’ultima unione sottomarina prima dell’oblio.

E’ invece più energica "Disintegration", carica come al solito di muri elettronici, di ritmica granitica e di spettri luminosi che baluginano nel cielo nero. Qui Smith riesce quasi ad esprimere rabbia, oltre che malinconia e rassegnazione, per le cose andate, disintegrate appunto, che non riuscirà più a provare e ad avere. Il pezzo è quasi beffardo nell’evidenziare con allegre punteggiature alcuni foschi ricordi, mentre l’urlo delicato e flebile di Smith cresce col passare del tempo, circondato dai suoi stessi fantasmi di un tempo.
"Homesick" è triste, spogliata degli ammennicoli inutili e ripiegata su se stessa in un bozzolo gelido di lacrime. Il saltellare della batteria è quello di un burattino rotto, le chitarre vagano singhiozzando tra le trame elettroniche, scansando controvoglia il minaccioso ma sfinito basso di Gallup e raggiungendo il pianoforte polveroso apparecchiato chissà quanti anni prima: la magniloquenza del rimpianto è lasciata da parte, rimane solo un crescendo flebile di amarezza, dritto al cuore come un semplice ma strepitoso dardo scheggiato.
La traccia conclusiva dell’album lascia alla musica e alle parole il compito di salutare, senza aver bisogno di un titolo ("Untitled", appunto). La commistione voce-chitarra-tastiera sa di rassegnazione cosciente, traducendo in canzone quel tipico sorrisetto timido, triste ma vitale che Robert Smith si porta addosso da una vita. Gli occhi sono ancora umidi mentre le chitarre si intrecciano per un’ultima lenta e bellissima danza, prima di scomparire all’orizzonte e lasciare solo l’organo, lontano, al buio.

"Disintegration" prende i labirinti specchiati di "Seventeen Seconds", la tristezza rassegnata di "Faith" e l’oscurità infernale di "Pornography", immergendo tutto nei pozzi elettronici di O’Donnell e buttando via la giocosità di solo due anni prima. Il risultato è un album dal suono compatto e coerente, affascinante, triste e freddo come la notte, ed emozionante come solo il capolavoro dei Cure può essere.

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