Dopo la pubblicazione di "Seventeen Seconds" il gruppo di Crawley si immerge in un lavoro dalle tinte ancora più grigie e sofferenti.
Mai come in "Faith" il senso di decadenza sara' cosi' evidente in un disco dei Cure; i pezzi,se nel predecessore erano gia' piu' lenti rispetto all'esordio di "Three Imaginary Boys", adesso sono di una staticità agonizzante, avvolti in un torpore mortale.
A parte il ballabile "Primary" e lo sfogo violento di "Doubt", il senso di pesantezza e' intollerabile di sovente, ed e' reso,oltre che dalle liriche fataliste, da una sezione ritmica quanto mai ossessiva, degna dei PiL di "Second Edition", e da tastiere cheseppelliscono letteralmente le impalcature sonore (queste vengono suonate da Smith stesso,dato che il precedente tastierista, Mathieu Hartley, e' stato allontanato).
La voce, talora agonizzante, talora rassegnata di Smith, fa il resto.

"The Holy Hour" battezza il disco all'insegna di una sorta di messa privata, cadenzata dai rintocchi lontani di Tolhurst e dallo spento incedere del basso e della chitarra. C'e' da dire che l'album è quasi un concept sulla fede come suggerisce il suo nome, e con "The Holy Hour" si viene introdotti in questa ricerca spasmodica di certezza, e anzi, la canzone rappresenta quasi il momento iniziale della "crisi".
"Primary" è anomala rispetto al resto del disco, come detto in precedenza e' sospinta da un ritmo ferroviario che la fa figurare sulla falsariga di "Play for Today"; le liriche anch'esse fuori contesto, con un'invettiva verso il sistema educativo inglese.
Con "Other Voices", primo capolavoro, si rientra nei canoni tematici. Un fruscio e una batteria compressa e lontana introducono uno dei riff più sofferenti del dark tutto (anche se Smith rifiuterà costantemente questa accezione, i lavori che vanno da "Seventeen Seconds" a "Pornography", compreso il singolo "Charlotte Sometimes", sono configurabili nella scena goth senza dubbio alcuno...), oltre che una voce che chiamare triste è eufemistico. I fantasmi morali di Robert appaiono qui spietati, pronti ad insidiare il dubbio portatore di distruzione.
La finissima "All Cats Are Grey", il cui contenuto è di matrice shakespeariana, imbastisce un giro di basso vorticoso, ben coadiuvato da una batteria umbratile e dal sussurrare fatalista di Smith; è il prologo al vero capolavoro del disco, "The Funeral Party". Con questo brano i nostri raggiungono i picchi di "The Eternal" e di "24 Hours", nonchè di "Swan Lake" o "Albatross".
Difficile spiegare la spaventosa emotività di questa canzone, sia liricamente che musicalmente. La sofferenza e la rassegnazione che trasudano da questa scarna melodia sono semplicemente intollerabili, con batteria  e basso a ripetere le stesse frasi morte, e una tastiera così toccante da sembrare irreale. Smith nel frattempo delira di un funerale dove è possibile danzare e piangere, in un'atmosfera permeata da una tristezza perpetua. Davvero da lacrime.
Dopo l'abisso ovattato di "The Funeral Party" uno schiaffo improvviso ci è dato dal dubbio seminato in "Other Voices". "Doubt" appunto è mossa da una veemenza aliena dalle atmosfere precedenti. Anche se la velocità può accomunarla a "Primary", le tematiche e l'impalcatura musicale sono radicalmente differenti. La musica è difatti estremamente concisa e diretta, decisamente post-punk, mentre la voce raccolta di del party funerario
deflagra in uno sfogo da crisi di nervi. Quasi l'ultimo sussulto di un uomo che sta affogando, l'ultimo disperato tentativo. In "The Drowning Man" svanisce appunto qualsiasi accenno di vitalità; la nenia da condannato a morte di Smith scandisce una melodia colma di riverberi, dove le corde della chitarra vengono straziate. Al solito il basso crea claustrofobia a perdere, ben aiutato dal synth. Il tema è quello del soffocamento rassegnato, dello spegnimento dei sensi, lento e vellutato, fino a respirare come l'uomo che affoga. Metafora davvero angosciante.
Da sottolineare,per onore di cronaca, il gran lavoro di Gallup,che con il suo pulsare moribondo conia uno stile personalissimo ed efficace, che ben si sposa con il chitarrismo davvero particolare di Smith.

La cesura è affidata alla title-track, dove ancora una volta regna il grigiore e la mestizia. Ogni appiglio residuo è sfumato, ogni speme è chimerica. Tutto tranne ovviamente la fede stessa. La fede, vista come estrema risorsa, ma anche come dannazione. La fede che costringe ancora il cuore a lottare una guerra persa in partenza. Che allontana lo squallido ma comodo giaciglio dell'oblio, della sconfitta. Che paragonata a questa continua
agonia assume i connotati di salvatrice, associabile alla celebre "morte consolatrice".
"Faith" si conclude così, con questa riflessione profonda su quanto talvolta sia più dolce il sapore dell'annientamento piuttosto che una fede vuota e cieca.
E cosi' si conclude il lavoro a mio avviso più carico di malessere degli anni '80. Non un malssere cinico e rabbioso come quello dei Suicide, non quello realisticamente metafisico dei Joy Division, non quello violento ed esoterico dei primi Christian Death, nemmeno quello claustrofobico e geniale dei PiL. Un malessere esistenziale e fatalista, tipicamente adolescenziale, che agli occhi di molti può senza dubbio apparire patetico e autoflagellatorio, ma scevro a parer mio da quella maniera che caratterizzerà i lavori dei The Cure post-"Pornography", e che adesso raggiunge l'apice-abisso di lirismo ed intesità.

Carico i commenti...  con calma