I primi anni novanta dei Cure nascono sotto il segno di un disco tanto discusso quanto fortunato, e per molti versi di svolta, come "Wish". Chitarre al potere come non era mai accaduto, un groove di autentico spirito rock, e atmosfere non più cupe ma di più ampio respiro, con una strizzatina d'occhio a un certo suono spensierato (vedi "Friday i'm in love").

La formazione, dopo l'ennesimo ritocco (Bamonte al posto di O'Donnel) attraversa uno stato di grazia sia compositivo, sia di affiatamento sul palco. Gli storici Smith e Gallup possono contare sulle chitarre guizzanti di Porl Thompson, uno che di rock se ne intende, sul grandioso drumming di Boris Williams, senza dubbio il miglior batterista che i Cure abbiano avuto, e sul nuovo entrato Bamonte, prezioso jolly che si alterna diligentemente tra chitarre e tastiere. Il "Wish tour" consacra il gruppo alle masse ed è un tripudio di luci, colori, scalette sempre diverse ma tutte di voluta matrice rock-pop, con i brani più gotici sacrificati all'altare dei ricordi. Ne è chiara testimonianza il doppio live "Show", registrato nell'estate del ‘93.

Qualche mese dopo, un po'a sorpresa, esce un altro disco dal vivo, stavolta intitolato "Paris". Si tratta di una registrazione del concerto parigino presso lo Zenith, risalente all'autunno dell'anno prima. La scaletta, breve ma ben studiata, riconsegna ai devoti fan l'immagine del gruppo a loro più cara, che sembrava essere stata messa in discussione: quella dei Cure alfieri di una musica ora cupa, ora nervosa, ora più dolce ed orecchiabile, ma sempre incredibilmente romantica ed emozionale. Basti pensare che i primi venti minuti di concerto sono affidati alla gloria di "The Figurehead", "One Hundred Years", e "At Night": tre maestosi affreschi gotici che nella dimensione live escono allo scoperto sprigionando al meglio la loro tenebrosa solennità; da ricordare gli incastri inquietanti delle chitarre delle due "pornographers" e  le tastiere monumentali della traccia di "Seventeen Seconds", quest'ultima assai di rado proposta dal vivo. La successiva "Play for Today" arricchisce lo scenario con momenti di pura epicità, con il pubblico che canta a pieni polmoni sulla caratteristica linea melodica; un'euforia presto interrotta da un nuovo capolavoro d'atmosfera quale la recente"Apart", l'unico estratto di "Wish" in grado di competere con l'oscura magnificenza dei brani precedenti.

"In Your House" fa da ideale spartiacque tra un primo lato decisamente cupo ed un secondo che sarà d'impronta più pop, di gran classe beninteso. Si susseguono nell'ordine singoli-gioiellino come"Lovesong", "Catch", "A Letter to Elise", e un gradito intermezzo che non ti aspetti come la stralunata "Dressing Up", peraltro ottimamente eseguita; fino ad arrivare alla stupenda "Charlotte Sometimes", la curesong per eccellenza, misteriosa e romantica, con le tastiere ancor più in evidenza che su disco e un cantato di Smith molto sentito, quasi drammatico. La performance si chiude con le geometrie della leggera "Close to Me", e il "merci"di commiato da parte di Smith  che manda tutti a casa felici e contenti.  

Passati oramai diciassette anni da quell'evento, perché quest'omaggio a "Paris", un album live di un gruppo che di album, tra ufficiali e non, ne conta alcune decine? La discografia a livello di bootlegs, poi, è praticamente senza numero. Beh, forse perché in "Paris" più che non mai troviamo l'essenza, il miglior concentrato di ciò che lo Smith-pensiero ha saputo esprimere per poi farsi adorare. Rock, pop, gothic, decadentismo, psichedelia, in una parola, i Cure e il loro pantheon di emozioni, quella sera tutte magistralmente di scena e catturate su disco. Con buona pace, ahimè, di chi quella sera non era tra i fortunati dello Zenith.

 

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