Mi considero tra quelli che i Cure se li portano “prima nel cuore e poi nella tomba” (ammesso di non trovarmi già inconsapevolmente nella seconda circostanza), non mi sono fermato nè a “Pornography” (limite estremo dei Puristi della Prima Ora) nè a “Wish”, contraltare guitar-driven di “Disintegration” (forse alla fin fine il più completo e organicamente integrato, contraddicendo il titolo, album della band di Crawley); e tuttavia dopo quest’ultimo, da “Wild Mood Swings” a “Bloodflowers”, alle raccolte varie, nonchè chiusura alquanto frettolosa della Fiction Records, casa discografica che Chris Perry decise di aprire come sussidiaria della Polydor appositamente per i Cure la domanda che sempre più spesso mi pongo è “perché?”.

Capisco che Perry, dopo aver capitalizzato il primo posto per tre volte di seguito nelle charts mondiali di un gruppo non accessibilissimo (come ad esempio gli U2 o i Depeche Mode) abbia pensato bene di vendere l’intero catalogo Cure alla Universal, e che ufficialmente la cosa abbia urtato la suscettibilità di Robert Smith, anche se magari ufficiosamente al leader dei Cure non sia poi tanto dispiaciuto incrementare potenza dei canali distributivi e dei mezzi di produzione e budgets americani passando dalla Fiction alla Geffen.

Beghe semi-ufficiali e “rompete le righe” a parte, la domanda è appunto “perché”. Se “Wild Mood Swings” è stato in parte ingiustamente subissato di critiche feroci, con il materiale che un ispirato come raramente capita Robert Smith si trovava nei tapes perché non una selezione diversa dei brani? Perché poi pubblicare un disco monocromo e con palesi cadute di stile come "Bloodflowers” (che inizialmente avrebbe dovuto suonare come gli ouutakes “Possession” e “Coming Up”, e forse anche “Signal To Noise”, quindi ben diversamente da pezzi pur affascinanti come “Watching Me Fall”, “Bloodflowers” e soprattutto “The Last day Of Summer”)? Perché questo cambiamento di 180 gradi nelle linee creative che il gruppo (per ammissione dello stesso Smith) stava imboccando? e potremmo chiederci perché affidare la produzione, controversa sin dalle news, a Ross Robinson (al mixer di Korn e Slipknot), con gente come Flood e Reznor in circolazione, e si potrebbe continuare a lungo, dalla collaborazione con i Blink182, alle backing Vocals di una cover dei Bee Gees nell’album solista di Billy Corgan (Bee Gees?? Allora chi ascolta "Parsifal" non avrebbe poi tutti ‘sti torti…); ma il problema è appunto l’album intitolato “The Cure”. Di cui esistono 3 versioni, una (la più “economica” e diffusa) termina le tracks con la notevole “The Promise”, stilisticamente parlando una specie di “The Kiss” aggiornata e allungata, più psichedelica con quell’efficacissima invocazione ripetuta all’infinito “and I am waiting…” sospesa nel vuoto, contrapposta al power pop di “The End Of The World”, ancora una volta E.P. detestato (ora è questo il peggior singolo di sempre, al posto di “The 13th”); una seconda versione “Enhanced CD” che include la “bonus track” intitolata “Going Nowhere”, subito amata dai fans, (qui le reminescenze conducono invece ad “Homesick”), e infine una terza versione, “Limited UK” alla quale mi fermo (“just one second, please…”) perché è qui che per usare quel detto che pare faccia riferimento all’antica città portuense sul Mar Nero, sembra a chi scrive che Robert Smith abbia perso la proverbiale trebisonda.

La prima cosa che facevo ogni volta che mi capitava per le mani un nuovo singolo era girarlo e ascoltare il B-side: mi sono sempre aspettato che il B-side mi desse una buona impressione, ma al tempo stesso differente ed efficace degli artisti che ho amato...”; questo ascoltando la ponderosa raccolta “Join The Dots” appare sicuramente vero, i B-sides dei Cure sono spesso di qualità eccelsa. Tuttavia quando l’immagine di un'intera opera (tra l’altro un’opera prima di lancio per una nuova casa discografica e per un potenzialmente nuovo cut-up del gruppo e nuovo mercato) ne risulta sofferente (per essere buoni) non si riesce davvero a capire le ragioni di scelte che imposte o meno, appaiono da ogni punto di osservazione discutibili. Chi ha comprato la versione con il DVD avrà visto Robert Smith intento alla registrazione delle vocals destinate al dubbing di una song intitolata (nel DVD) “Someone’s Coming”: si tratta di un pezzo che da solo avrebbe spostato l’intero baricentro dell’opera verso un nuovo corso del cure-sound, che potremmo forse annoverare al (poco definibile?) concetto di “post-rock”. Melodie oblique, chitarre spaziali, cantato “in discesa” poi nuovamente "ascendente",  linee melodiche sbilenche che si re-incontrano al momento della “girl like youuuuuuuuu” di Smith con la "u" tenuta all’infinito e drumming meravigliosamente in controtempo; verrebbe da dire “forse, come dovrebbero essere i Cure oggi”; bene, quella canzone si intitola “Thruth Goodness and Beauty” e compare nell’edizione per il mercato britannico. Situata per l’esattezza tra la romantica “Before Three” (lontana "Just One Kiss"?)  e il singolo “The End Of The World”. Ma non è tutto. Perché chi ha avuto la pazienza di comprare anche quest’ultimo mini-cd a parte il citato pezzo (per nulla sgradevole) è rimasto colpito dalla qualità dei “retri”, cioè "Fake" e soprattutto “This Morning”, atmosferico, malinconico, impressionistico, in pratica una canzone magnifica che nel mood e nella sezione ritmica, potente (memorabile l’attacco con quel 7/4* in levare) porebbe tranquillamente costituire l’altro fuocus “malinconico” dell’album, assieme alla (oggettivamente splendida) “Anniversary “; ma se possibile i Cure riescono a superare se stessi (nonchè l’assurdità delle loro scelte discografiche) nella versione “instrumental” della stessa track, una suite sbalorditiva, semplicemente Cure-iana, che ricorda perfettamente proprio “Disintegration” (qui compare un piano splendido che assieme alla sezione ritmica e alla atipica assenza del cantato dà realmente l’idea della meditazione contemplativa, disegnando lanscapes interiori); per il resto dell’album: non male “Labyrinth”, con le sue chitarre un po’ alla Led Zeppelin (Porl Thompson è reduce dalla collaborazione con Jimmi Page e Robert Plant), tirate, orientaleggianti, e quel cantato con le tipiche liriche circolari di Robert Smith (“say is the same sun spinning in the same sky, say is the same stars stremaming in the same night…”) con voce filtrata "industrial" e apertura dopo le prime due strofe; e soprattutto “Lost”, da tutti, critica e pubblico, giudicata il “miglior episodio dell’album”, “il miglior pezzo scritto da Smith dai tempi di Disintegration”, da qualcuno addirittura paragonata a “Hurth” dei Nine Inch Nails. Un oscuro, ossessivo ("I can't find myself... I can't find myself...) rabbioso, nella versione "trattenuta" della rabbia di Robert Smith. Abbiamo elencato 7 pezzi di notevolissima caratura (uno nella duplice versione instrumental e cantato); che su una collection di 12-13 tracce avrebbero dovuto/potuto avere un impatto differente; invece nell’album l’ascoltatore deve sorbirsi quell’obbrobrio di “Us Or Them” (i Cure non sono i Linkin Park…) che però casualmente nel web site alla voce “canzoni più richieste per un liveshow” è al primo posto. A me piacevano molto "More Than This" e "Play"... Ritiro tutto: sono io che non avevo capito bene… :-)

PS: (I don't know) What's Going On... and I don't Know if the 7/4 is right... ma se non lo dovesse essere; j'excuse moi meme avec le DeBaserique trés gentile auditorium.  

By ’πνοςphere boy ©

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