THE CURE

"THE HEAD ON THE DOOR"

Fiction, 1985

Prodotto da David M. Allen e Robert Smith

 

Robert Smith
– voce, chitarra, tastiere

Simon Gallup
– basso

Porl Thompson
– chitarra, tastiere

Lol Tolhurst
– tastiere

Boris Williams
– batteria, percussioni

 

  1. "Inbetween Days"
  2. "Kyoto Song"
  3. "The Blood"
  4. "Six Different Ways"
  5. "Push"
  6. "The Baby Screams"
  7. "Close To Me"
  8. "A Night Like This"
  9. "Screw"
  10. "Sinking"


I Cure di metà anni ’80 sono di fronte ad un bivio: il loro mercuriale leader, Robert Smith, li ha lanciati nell’ondata di risacca del punk, quindi li ha progressivamente ed inesorabilmente guidati nei baratri delle sue ossessioni tossiche, portandoli dopo Pornography alla distruzione e all’immediata ricostituzione in nuova veste. L’ex batterista Lol Tolhurst, infatti, ora fa i compiti assegnatigli da zio Bob alle tastiere, e il vecchio compagno di bevute, il bassista Simon Gallup, è tornato in scuderia dopo 24 mesi buoni di sgroppate solitarie; il seggiolino dietro le pelli viene saldamente occupato dall’ottimo Boris Williams, mentre si trova in famiglia (Smith, ovviamente) il funambolico Porl Thompson, chitarrista di passate stagioni Cure. Nel 1985 Robert deve decidere cosa fare da grande: se continuare nelle sue cavernose esperienze gothic, abbracciare la sperimentazione pura e a volte troppo lunatica del precedente "The Top", o se spiccare il volo nel Gotha dei musicisti di Sua Maestà.

Come? Con pezzi quali "Inbetween Days". Il brano è un ottimo tessuto pop, un mosaico del talento mai banale del clown triste, dove ogni tassello strumentale sa esattamente dove piazzarsi. La chitarra acustica cavalca spensierata insieme alla batteria, mentre le tastiere tentano pigramente di far nascere un sorriso, quel sorriso a metà che solo Robert Smith può assumere mentre ci dice, con fare sardonico, "Yesterday I Got So Old I Felt Like I Could Die". Il contrasto tra l’apparente spensieratezza della musica e la tensione del testo è pienamente a fuoco, modellato dal ricco e certosino lavoro ritmico e dalle tastiere tanto orecchiabili. Così nascono i brani di successo e di valore.

La successiva "Kyoto Song" è meno saltellante  e più distesa, dotata di un fascino oscuro irresistibile. I gorghi di Pornography sono però lontani: il buio non è più solo involucro di incubi, ma anche di riflessioni d’Oriente nella mente di Robert. Le tastiere punteggiano di luce l’avanzare nero del basso, dotando il brano di una strana magia riecheggiante nella notte.

Giusto per variare ancora, Robert Smith sfodera un’inaspettata rilettura flamenco delle sue ossessioni religiose. "The Blood" è infatti un trionfo di chitarre acustiche strimpellate in una magnifica cornice da Spagna moresca, carica di affascinanti spettri arabeggianti. Se Smith è “paralizzata dal sangue di Cristo”, noi lo siamo davanti alla grandiosa poliedricità di questo artista.

E’ un bosco di animali elettronici zampettanti quello che accoglie "Six Different Ways", zuccherosa e stravagante esperienza di un timido Robert cha ha proprio deciso di tagliare i freni e lanciarsi a capofitto in ogni corridoio della sua labirintica mente. Il risultato è piacevole e leggiadro.
 
Di tutt’altro spessore è "Push", forse vero capolavoro dell’album. Le chitarre cantano e corrono contemporaneamente, mentre in cielo baluginano le prime avvisaglie di quello che sarà un lavoro di batteria strepitoso. Quando il pezzo decolla in un rispecchiarsi di corde, il tutto assume un tono dolcemente epico, capace di essere il sottofondo ideale per un viaggio indimenticabile, o allo stesso tempo per un malinconico sguardo ad un album di fotografie. La canzone sale e scende, seguendo il magnifico battito da cuore scaleno di Boris Williams, finchè la voce di Robert, mai così familiare, spazza via ogni indugio col suo “Go, go, go!”. E’ come il via ufficile per una delle più affascinanti canzoni del repertorio dei Cure.

La seconda metà dell’album si apre con "The Baby Screams", elettronica ed energetica. Il basso di Gallup è il solito traino minimale ma efficacissimo per una canzone che scorre con carica, ricamata a trame grosse dalle chitarre effettatissime e dal cantato acuto di Smith.

"Close To Me" è il manifesto Cure del periodo: sorretta da una ritmica costante e spessa, viene affrescata da battiti di mani, sospiri, sussurri e tastierino di una timidezza e una dolcezza imbarazzanti. La grandiosa interpretazione di Robert fa il resto, regalando un’improbabile quanto geniale gemma pop che entra in testa all’istante e non ne esce più.

Sale da lontano, minacciosa, "A Night Like This", con le ondate di chitarra ad evidenziare un pianoforte ossessivo. Il pezzo unisce, comunemente agli altri del disco, una sensibilità propria da canzone ad un’incapacità disarmante di essere banale, offrendo addirittura un bell’assolo di sassofono, tinteggiando le vostre serate anni ’80 come pochi avrebbero saputo fare.

Il basso si fa aggressivo in "Screw", preannunciando un pezzo duro e cattivo. Ecco, appunto, nient’affatto. Il caro Robert ci spiazza ancora saltellandoci sopra, mischiando delle tastiere giocattolo e aggiungendo un pizzico di follia metropolitana: che ci volete fare, la tela è sua, e (per fortuna) ci dipinge cosa vuole.

La chiusura è affidata a "Sinking", bellissima mareggiata notturna costruita alla perfezione; come in un’ottima opera teatrale, gli strumenti entrano in scena al momento giusto, guidandoci per mano nelle atmosfere distese e nuovamente malinconiche dei neri sogni di Robert Smith.

"The Head On The Door" è un compendio dei Cure: in soli 38 minuti raccoglie una vastissima gamma di suoni ed emozioni, sempre centrata ed attraente. L’album è ricco e vario, mai ridondante o dispersivo e suonato in maniera eccellente (le aggiunte di Thompson e Williams danno davvero una marcia in più). Sì, nel 1985 i Cure hanno fatto il salto sull’Olimpo.

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